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L’amico Enzo Verrengia, giornalista e romanziere di lungo corso – sul mio taccuino personale indimenticabile la sua antologia La notte degli stramurti viventi (Stampa Alternativa, 2001) – compie un miracolo che ha dell’incredibile.
Deliverance di John Boorman (1972) non è un film horror.In genere non lo si trova nelle varie guide storiche del genere: Boorman e James Dickey (autore del libro omonimo che ne firmò anche la sceneggiatura) sono tuttora certi che la loro opera sia una specie di western moderno declinante la più classica delle tematiche americane, quella del viaggio.
Intendiamoci, non sono uno che si beve tutto di King commentando “Ah, fantastico”.All’uomo del Maine non ho ad esempio perdonato, ad esempio, Insomnia, trovandolo in più punti stucchevole, pedante e noioso. Per dire, insomma, che non sono un kinghiano sfegatato e acritico. Inoltre da anni covo il malizioso sospetto che la premiata ditta sia una sorta di King & Co. a più mani, non accettando forse più per segreto livore che un uomo solo riesca a scrivere così “tanto” e quasi sempre così “bene”.
Esiste già un precedente con l’identico titolo e trama, tutto sommato, non così lontana da questo secondo film americano del regista inglese Nick Hamm, già autore un paio d’anni fa del claustrofobico The Hole.Uscì nel 1980 e in Italia non si vide mai, quantunque la Sonzogno ne avesse stampato il libro ispirativo di Bernard Taylor, lanciato sul mercato con il titolo Baby Satana. Allora la storia, diretta con mano ferocemente neutrale da Gabrielle Beaumont, ruotava attorno a una neonata adottata da una famiglia americana con già quattro figli a carico.
Non è vero che luccica tutto l’horror che arriva dall’Asia. Soprattutto non è vero che Phone è terrorizzante quanto The Ring come fu annunciato dai trailers.Phone, purtroppo, si barcamena tra il melodramma fantasmatico e l’horror tecnologico con ampio dispiegamento citazionistico dal cinema occidentale (L’esorcista, Argento, De Palma), affonda dopo pochi minuti dall’inizio in una serie di aspettative sempre tradite da buchi di sceneggiatura, irritanti effetti sonori, false piste e da un inesistente sense of wonder.
Uno speciale dedicato a Jean Ray, autore delle incredibili avventure dell’investigatore Harry Dickson nonché di un romanzo e di alcune raccolte di racconti che restano fra quanto di più squisitamente inquietante possano annoverare le biblioteche del mistero e dell’orrore.Nel 1904 il diciassettenne Raymond Jean-Marie de Kremer entra, per acquistare dei dolci dall’aria squisita che ha visto esposti in vetrina, in una vecchia confetteria di Gand. Il locale è assolutamente vuoto e silenzioso: a nulla serve attendere e chiamare. Il ragazzo prende la decisione di riempire di dolci un sacchetto e di andarsene. Ma, pochi giorni dopo, quando vorrà ritornare in quella bottega, scoprirà che, nell’antica viuzza fiamminga dove i frontoni dei palazzi si specchiano nell’acqua ferma del canale, la pasticceria è scomparsa con l’edificio che la ospitava e nessuno ricorda d’averla mai vista; né verrà mai più ritrovata, per quanto il ragazzo indaghi in giro per la cittadina.