Cinema HORROR 70

HORROR 70

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Cosa c’è alle spalle del Grindhouse di Tarantino & Co? Scopriamolo con un salto nel tempo, indietro nel secolo scorso, fino alle lande pazzesche, violente, surreali degli anni Settanta…

 «Un po’ di vita, qualche risata e… una scorpacciata di ultraviolenza ». Gli anni del Boom Economico e quelli della “Love Generation” sono più che mai lontani, l’onnipotente dollaro è preda di un inaspettato collasso e al suo fianco – tra le risaie e le giungle di un remoto paese asiatico – rotola giù per le scale anche l’infantile mito dell’imbattibilità americana. Nel nostro Paese sono anni di austerity energetica, di scandali e di oscure trame politico-criminali; le tensioni sociali scoppiano per le strade insieme alle bombe e alle pallottole degli innumerevoli gruppi armati, mentre le metropoli d’occidente rivelano il loro volto feroce e inumano – ritratte a tinte forti da un giornalismo-noir che alimenta una crescente paranoia da “assedio delinquenziale”. Il mondo intero – tra violente crisi internazionali ed episodi “distensivi” – sembra dibattersi in un intreccio di contraddizioni senza via d’uscita. Raccogliendo la carica dirompente di queste forze, la cassa di risonanza dell’immaginario si deforma, si gonfia, esplode atomizzandosi in milioni di schegge fluorescenti e sanguigne. Ma non è solo apocalisse e terrore; la lama taglia su entrambi i lati e, sull’altro versante, ciò che regna è una “fantasia liberata” che esplora i propri limiti (quelli del pubblico e quelli della censura), rivolgendosi soprattutto ai fremiti del corpo, percorso dal brivido di una nuova “rivoluzione sessuale”, dissolto nelle allucinazioni della “psichedelia”, deturpato da una nuova, iperrealistica rappresentazione della brutalità. Dal punto di vista dello show business, gli anni Settanta sono il decennio del rock scatenato, di fantasiose avventure fantascientifiche e spionistiche, ma soprattutto sono gli anni di Dirty Harry (il nostro ispettore Callaghan – in realtà, Callahan), dei giustizieri e dei guerrieri della notte, degli Hell’s Angels, della Blaxploitation etno-poliziesca di Shaft il detective (Gordon Parks, 1971), degli acrobatici scontri di kung-fu messi in scena da Bruce Lee e dalle produzioni degli Shaw Brothers (creatori dell’ideale capostipite del filone, il famigerato Cinque dita di violenza di Chang-hwa Jeong, 1972), ma anche del genere poliziottesco all’italiana e (almeno in parte) del cosiddetto spaghetti-western… A questo cosmo immaginifico feroce, grottesco, “pornografico”, ma anche ridanciano e sguaiatamente auto-ironico, si rivolge – dichiaratamente – l’enfant terrible Quentin Tarantino nel dare forma ai suoi gustosi feticci cinefili, così come hanno fatto i fratelli Wachowski per il loro piccolo gioiello di fantascienza cyber-pulp Matrix (1999).

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Arancia Meccanica (1971) di Stanley Kubrick

Lo sfondo su cui nasce il cosiddetto New Horror degli anni Settanta è disegnato altrove, lontano dai freak e dai mostri assassini che ne sono protagonisti… Nella bolgia delle nuove paure e delle nuove fascinazioni, il “grande” cinema è di fatto il primo a segnare il punto. Persino il western americano, che in quel magico decennio tocca il proprio apice espressivo – iniziando nel contempo a scivolare verso il crepuscolo – rinuncia ai romantici miti della frontiera per sposare la causa del più crudo realismo; già nel 1969 Sam Peckimpah ha messo in scena, con Il mucchio selvaggio, una mattanza apocalittica, in cui la carne esplode sotto i colpi dei proiettili e il sangue (di un rosso carminio, osceno e innaturale) si riversa incontenibile su ogni cosa. L’anno successivo, il regista Ralph Nelson rincara la dose con il grandguignolesco massacro indiano di Soldato blu, dove decapitazioni, sventramenti e stupri sono raccontati senza fronzoli o dissolvenze. Nel ’72 arriva l’ultraviolenza di Alex e i suoi drughi, protagonisti di quel capolavoro kubrickiano – Arancia meccanica – che scuoterà le morbide budella dell’occidente attirando su di sé sciocche accuse di pornografia e apologia della violenza; nel frattempo l’irriducibile Peckimpah ha provveduto, nel 1971, a raccontare l’inquietante brutalità domestica del suo Cane di paglia, che vede un timido professorino di matematica – l’ancora imberbe Dustin Hoffmann – fare strage di un branco di balordi con la determinazione di un killer inveterato, a colpi di olio bollente, doppietta da caccia e spranga di ferro. Il clima è torbido, disorientante, “noir” potremmo dire, e distinguere i Buoni dai Cattivi è un compito che nessuno è più in grado di svolgere. Il braccio violento della legge di William Friedkin (1971) mette in mostra la losca amoralità della polizia newyorkese, mentre – tra strangolamenti, cavalli decapitati e splatter-sparatorie – Il Padrino di Francis Ford Coppola (1972) dona una perversa, ma accattivante, “umanità” anche ai più spietati gangster. E così via, mentre la deriva psicopatico-metropolitana di Travis Bickle (alias Robert De Niro) sfocia in un bagno di sangue di perturbante verosimiglianza – il film è, naturalmente, Taxi driver di Martin Scorsese (1976) – Steven Spielberg non manca di recapitare al suo pubblico una succulenta dose di corpi fatti a brandelli, teste galleggianti e gambe mozzate, grazie alle fameliche fauci de Lo squalo (1975), e persino l’attempato Lord del delitto Alfred Hitchcock, spinto dal vento dei tempi non esita a mostrare un seno nudo, nel corso di uno strangolamento brutale, che richiama una sorta di stupro necrofilo (Frenzy, 1972)… La violenza, quella più greve e carnale, non è più un tabù; anzi, il cinema degli anni Settanta mette sotto torchio i sonnolenti artigiani degli effetti speciali per spingerli a realizzare visioni sempre più trucemente realistiche; è in questi anni che nomi come Tom Savini, Dick Smith, Rick Baker, Carlo Rambaldi, Stan Winston, Giannetto DeRossi, e molti altri, cominciano a emergere sul palcoscenico dell’entertainment, elaborando metamorfosi e finte amputazioni, fori di pallottola e ustioni repellenti, con una meticolosità che non si era mai vista. La produzione cinematografica, anche e soprattutto quella in cui orrori e sevizie occupano una posizione preminente, è attraversata anche da una vena di impegno politico, di denuncia, di polemica e provocazione intellettuale, ma tra le righe serpeggia comunque soprattutto una crescente richiesta voyeuristica. Sedendosi in poltrona, gli spettatori sembrano cercare una nuova verginità, sembrano chiedere di tornare ad essere stupiti, spaventati, disgustati come accadeva ai loro antenati nei drive-in americani degli anni Cinquanta e Sessanta, che potevano candidamente arrotondare la bocca in una grande “O” stupefatta di fronte al gore di Hershell Gordon Lewis o al ripugnante alieno di turno…

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L’esorcista (1973) di William Friedkin

Tutto questo accade comunque sulle sponde dorate del “cinema d’autore”, quello che – pur se accolto a suo tempo da strepiti e proteste – era destinato a raccogliere immensa fama postuma. Diverse, e assai meno sdoganabili, sembrano invece essere le fonti a cui Tarantino & Co attingono nella loro riesumazione degli Amazing Seventies. Di fatto, non si tratta neppure dei fasti gloriosi del vero e proprio cinema horror, che in quel decennio inanella alcune delle sue perle più pregiate e conosciute; da L’esorcista di Friedkin (1973) a Il presagio di Richard Donner (1976), da Nosferatu di Werner Herzog (1978) a Halloween di Carpenter (1978), senza dimenticare Profondo Rosso o Suspiria del nostrano Argento (rispettivamente 1975 e 1977), e poi il kinghiano Carrie, lo sguardo di satana (Brian De Palma, 1976), La casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati, 1976), Brood di David Cronenberg (1979) o gli immancabili Non aprite quella porta, Quel motel vicino alla palude (Tobe Hooper, 1974 e 1976) e Le colline hanno gli occhi (Wes Craven, 1977)… Una lista, lunga ma alquanto incompleta, che rende comunque conto di un periodo vivace e frizzante di spunti terrifici, vera e propria ondata di nuovi autori, pronti a rilanciare la scommessa del “genere” per rinnovarne i canoni ed elettrizzare il cuoio capelluto di un’altra generazione di orrorofili. Accanto a questa masnada di avventurieri si muove ancora il declinante filone del “gotico” classico, quello che nei decenni precedenti ha colmato gli schermi di vampiri e fantasmi, castelli diroccati e case infestate; un filone che continua a respirare e a produrre i suoi rassicuranti incubi tradizionali. Basti ricordare – per non scontentare nessuno – fanta-horror come Il cervello dei morti viventi (Peter Sasdy, 1972), il draculesco Il demone nero (Dan Curtis, 1974) o il manicomiale Delirious, il baratro della follia (Freddie Francis, 1973), pellicole spesso sostenute da sceneggiature non prive di merito, ma soprattutto da sempreverdi “icone dark” come Peter Cushing o Christopher Lee. Anche le navigate volpi dell’horror anni Sessanta sentono però che la musica è cambiata e, in molti casi, decidono di rispondere mescolando ai vecchi temi nuove salse al sapor di Sex&Violence, satira politica o addirittura “kung-fu movie”, ottenendo spesso dei pasticci kitsch davvero gustosi. È il caso, ad esempio, di Grave of the vampire (John Hayes, 1972), dove una donna viene violentata e messa incinta da un non morto, dando poi alla luce un neonato assetato di sangue; oppure di The Werewolf of Washington (M.M.Ginsberg, 1973) che vede la Casa Bianca contaminata da una maledizione licantropica, o, ancora, del piccolo cult-trash La leggenda dei sette vampiri d’oro (Roy Ward Baker, 1974), che trasporta lo spirito di Dracula nelle esotiche contrade cinesi… Ma non mancano neppure contaminazioni bizzarre ispirate alla Hippie Generation e al filone On The Road – come accade, per non citare che due rapidi esempi, con i motociclisti-licantropi di La notte dei demoni (Michel Levesque, 1971) o con i figli dei fiori vampirizzati dal succhiasangue Khorda nello psichedelico Deathmaster di Ray Denton, (1973). In questo pazzo calderone ribollente non può non venire a galla un simpatico furbacchione come Andy Milligan, pioniere del cinema sexy-gore e prolifico realizzatore di pellicole horror-underground stravaganti come Bloodthirsty Butchers (1970) o The Rats are coming! The Werewolves are Here! (1972); ma non da meno è la produzione di Al Adamson che, messosi in viaggio già sul finire dei ’60, approda al nuovo decennio con rinnovato entusiasmo. Servendosi di vecchie star degli anni ’40 opportunamente riverniciate – come Lon Chaney Jr. o John Carradine – il Nostro mette infatti in scena spassose e sgangherate “variazioni su tema” come Sette per l’infinito contro i mostri spaziali, Blood of Ghastly Horror o Blood of Frankenstein (tutti e tre del 1970). Ma è soprattutto una sua, di poco, precedente impresa che ci interessa qui…

L’Ultima casa a sinistra (1972) di Wes Craven

L’Ultima casa a sinistra (1972) di Wes Craven

Il Satan’s Sadists di Adamson, girato nel 1969, è il passe-partout che ci serve per fare un ulteriore passo nel territorio dell’Horror70, cioè nella polpa viva delle “ispirazioni” tarantiniane. Storia di feroci motociclisti stupratori destinati a cadere – dopo alcune divertenti scorribande – sotto i colpi delle loro stesse vittime, può essere considerato il primo germe di un vero e proprio “genere a parte”, il cosiddetto Rape&Revenge, che sarà capace di raccogliere l’interesse di una nutrita schiera di cineasti. Si potrebbe dibattere a lungo su quanto questa particolare vena dell’immaginario possa essere legittimamente definita “horror”, ma sarebbe una perdita di tempo; i contenuti violenti, erotico-morbosi, genuinamente “rivoltanti” che contiene e trasmette sono a tutti gli effetti cittadini accreditati della grande metropoli del Perturbante. Nel ’72 arriva L’ultima casa a sinistra, del futuro Profeta dell’Incubo Wes Craven, dove due ragazzine vengono rapite, seviziate e uccise dai sadici Fred e Krug (antenati – non è difficile capirlo – del villain per eccellenza Freddy Krueger), i quali a loro volta saranno fatti a pezzi dai genitori delle defunte; così come accadrà di lì a poco agli psycho-violentatori de L’ultimo treno della notte (Aldo Lado, 1974), “remake non dichiarato” del film di Craven. Il corpo femminile, messo a nudo e sistematicamente violato, diviene il palcoscenico di una messinscena iperviolenta e, nel contempo, è veicolo di una vendetta-catarsi che si ripropone con sanguinaria ripetitività in una miriade di film; dal “patinato” Cosa avete fatto a Solange? (Massimo Dallamano, 1972) – non a caso esaltato proprio da Tarantino – al brutalmente esplicito Non violentate Jennifer di Meir Zarchi (1978). La potente mistura sesso-e-violenza (non dimentichiamo che questi sono anche gli anni della “porno-reinassance”, capitanata dal Gola profonda di Gerard Damiano, 1972) è una locomotiva a cui si agganciano presto ulteriori vagoni; vene pulsanti della produzione pseudo-horror che i fanatici della catalogazione hanno prontamente etichettato: ad esempio, il cosiddetto genere WIP, cioè Women in Prison, che filma in presa diretta le fantasie lesbo-criminali dello spettatore-uomo, chiudendo dietro sbarre o filo spinato giovani donne “pronte a tutto”, anche e soprattutto a infliggersi l’un l’altra terribili sevizie. A titolo d’esempio, basti citare l’eloquente titolo Greta, la donna bestia (1976), di Jesse (o Jesus) Franco – uno dei protagonisti celebrati del sexy-horror clandestino e “di culto” – dove alla malcapitata di turno tocca essere usata come puntaspilli… A completare, si fa per dire, questo girone delle atrocità troviamo l’ancor più grottesco filone “Nazi”, rappresentato ufficialmente da Ilsa la belva delle SS (Don Edmonds, 1974): pellicola quanto mai granguignolesca in cui l’ex spogliarellista Dyanne Thorne martirizza le deportate di un campo di concentramento con una sequela di assurdi esperimenti. Offensivo, indigesto, disturbante, il “genere” in questione è in un certo senso il più efficace portabandiera di quella costante ricerca del limite che caratterizza il cine-voyeurismo di quel periodo, ma nel contempo ne illustra pienamente la natura ambivalente (e, in fondo, innocua), laddove disinnesca da sé la propria carica orrorifica scivolando nel ridicolo involontario, nell’eccesso sgangherato, nella costruzione irrimediabilmente grottesca e caricaturale dei suoi personaggi.

Last House on the Dead End Street, di Victor Janos (alias Roger Watkins) arriva sugli schermi d’America nel 1976, ma la sua data di nascita reale è il 1973, anno in cui viene partorito con l’aiuto di 3000 dollari e una buona scorta di alcolici. La trama è presto fatta: il giovane filosofo-psicopatico Terry Hawkins – reduce da un “ricovero” carcerario – vuole darsi al cinema e, per farlo, massacra davanti alla cinepresa gli stessi committenti del suo film (pornografi in cerca di “nuove emozioni”), in una girandola di percosse, eviscerazioni, amputazioni… Circondata dall’immancabile “aura di mistero e dannazione” (soprattutto per via della sua difficile reperibilità) l’opera di Janos/Watkins chiude degnamente la nostra rapidissima e sommaria panoramica sull’Horror70. Pur rimanendo lontano dalla carica suggestiva di Tobe Hooper e dalla fantasia visionaria di Cronenberg, dalla scarna sobrietà narrativa di Craven e dalle intuizioni di George Romero (che, non dimentichiamolo, con il suo La notte dei morti viventi – del 1968 – è probabilmente il vero Padre Fondatore del New Horror), Last House on the Dead End Street è comunque una sorta di manifesto di quel cine-orrore sotterraneo e “irriducibile”, provocatore e rigorosamente low-budget che caratterizzò il “decennio grindhouse”…

 

Il mondo dei “Mondo”

mondocaneSingolare miscela di snuff-movie e documentario con ambizioni “giornalistiche”, il cosiddetto “Mondo Movie” è una bizzarria tipicamente (benché non esclusivamente) nostrana… Attaccate dai detrattori come titillanti esercizi di sensazionalismo morboso, e difese – dai fan dell’underground – come interessanti esercizi di stile nell’ambito del cinema “di genere”, queste pellicole hanno riempito gli schermi d’Italia di “curiosità” esotiche a tinte forti (uomini sbranati da varie belve, esecuzioni capitali, perversioni e violenze sessuali, torture, autopsie, parti in diretta e incidenti stradali, ma anche primizie gastronomiche del tipo “cucina thailandese a base di serpenti”), mescolando – sotto l’etichetta del “è tutto vero!” – realtà e finzione in proporzioni variabili. Nati ufficialmente nel 1962, grazie all’opera di Gualtiero Jacopetti – Mondo cane, per l’appunto – conosceranno un rinnovato slancio proprio nel nostro “decennio d’oro”. Inutile dilungarsi sui contenuti, perlopiù orientati a soddisfare la crescente richiesta di immagini disturbanti, condite – e mascherate – da “velleità antropologiche” sulle  cruente usanze tribali africane o sulla “vita sessuale” di pigmei, carcerati, schiave dell’harem, e via discorrendo. Da Africa mia, (Guido Gerrasio con Angelo e Alfredo Castiglioni, 1972) al famigerato Ultime grida dalla savana (Antonio Climati, 1975), da Brutes and savages (Arthur Davis, 1975) a Le facce della morte di Conan Le Cilaire (uno dei molti pseudonimi di John Alan Schwartz, 1978), i Mondo Movie hanno deliziato le platee dei voyeur dell’orrido, indignato le commissioni di censura, ma anche stimolato qualche riflessione non scontata sul ruolo dell’informazione – sulle sue derive e sulle sue potenzialità…

 

Blood, sang, sangue o sangre?

Jess_Franco_2008Violento, pornografico, irriverente, grottesco, anarcoide… la lista degli aggettivi che si addensano sulla testa di Jesús Franco Ocádiz potrebbe allungarsi quasi all’infinito, così come quasi all’infinito si allunga la lista dei suoi film (più di centottanta titoli!). Attivo dalla fine degli anni Cinquanta – e ancora oggi tutt’altro che “pensionabile” – il regista spagnolo è comunque da considerare uno dei più “autorevoli” esponenti dell’horror-erotico “anni Settanta” proprio in virtù della sua istintiva affinità con il cinema di quegli anni, per via delle tematiche scabrose che ha sempre prediletto e del suo stile sapientemente grezzo, rigorosamente artigianale. Tra le sue più “memorabili” pellicole di allora, possiamo ricordare Il conte Dracula (1970) – che si avvale, come altri lavori di Franco, di un Christopher Lee momentaneamente “scaricato” dal Grande Cinema – Vampyros Lesbos (1971), Dracula contra Frankenstein (1972), La comtesse perverse (1974), Justine (1975) o Jack The Ripper (1976) – con un altro dei suoi collaboratori abituali, il grande Klaus Kinsky… Vale la pena di segnalare che il Nostro, nel corso della sua quarantennale avventura (al momento, l’ultima pellicola che ha firmato – Snakewoman – risale al 2005) si è avvalso di circa una settantina di pseudonimi!

 

 

Orrori “al dente”…

Ovvero “spaghetti horror”; espressione triviale ma efficace, che ci serve a segnare i confini del cine-orrore italico – nutrita scuola (o combriccola, se preferite) di autori e “artigiani”, che nel corso degli anni Settanta non mancarono di partecipare alla mattanza con una rigogliosa, benché semi-clandestina, attività. “Semi-clandestina” perché pressati ieri come oggi dall’invadenza dei prodotti americani, furono spesso costretti a mascherarsi dietro i “baffi di cartone” di uno o più pseudonimi anglofoni. Furono moltissimi, ma inutile dire che abbiamo spazio per citarne solo alcuni…

 

Dario Argento

Che dire di lui? Il più longevo, celebre e tenace maniaco horror nella storia della celluloide italiana, purtroppo precipitato decenni fa in un crepuscolo creativo ormai irreversibile. Negli anni Settanta realizza una raffica di film che ne consacreranno il mito; L’uccello dalle piume di cristallo (1970), seguito dal meno convincente Il gatto a nove code (1971) e da Quattro mosche di velluto grigio (1971). Nel 1975 confeziona il suo indiscusso capolavoro, Profondo rosso, e – nel 1977 – chiude il decennio con la svolta verso il soprannaturale segnata da Suspiria.

 

Antonio Margheriti

(Alias Anthony Daises, Anthony Daisies, Anthony M. Dawson, ecc…)

Nato nel 1930 e scomparso nel 2002, Margheriti era davvero una “vecchia volpe” del terrore, attivo sul set fin dagli anni Cinquanta. Nel “decennio d’oro” diede seguito alla già corposa carriera con titoli come Nella stretta morsa del ragno (1971), La morte negli occhi del gatto (1973), il parodistico Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete (1974) o Killer Fish, agguato sul fondo (1978).

 

Lucio Fulci

Uno dei grandi protagonisti della lunga stagione dell’horror italiano (ma anche dell’avventura, della commedia, e persino del musical) che, dalla fine dei Cinquanta fino alla sua recente scomparsa, non ha smesso di seguire con solida professionalità i tortuosi sentieri del cinema “di genere”. Avrebbe dato sfogo alla sua predilezione per l’horror negli anni Ottanta, ma anche in precedenza non mancò di realizzare godibili e cruenti lavori; Non si sevizia un paperino (1972), Sette note in nero (1977), Zombi 2 (1979)…

 

Sergio Martino

(Alias Julian Barry, Martin Dolman, Serge Martin, Christian Plummer)

Classe 1938, esordisce dietro la cinepresa nel ’69 – ma è solo verso la fine degli anni Settanta che approda alle sponde del fanta-horror esotico o “pseudo-lovecraftiano” con due pellicole immancabili nella videoteca dei veri “fanatici”: La montagna del dio cannibale (1978) e L’isola degli uomini-pesce (1979).

 

Aldo Lado

(Alias George B. Lewis)

Oltre al cruento “Rape&Revenge” L’ultimo treno della notte (1974), realizzò anche l’“horror-politico” La corta notte delle bambole di vetro (1971) e il giallo-thriller Chi l’ha vista morire? (1972), in cui ci presenta niente meno che… un prete assassino!

 

Ruggero Deodato

(alias Roger Drake, Roger Deodato, Roger Franklin, Roger Rockefeller)

Inutile girarci intorno; nella storia del terrore made in Italy, il nome di Deodato è inevitabilmente associato alla sua pellicola super-gore Cannibal Holocaust (1979), che gli ha donato notevole popolarità anche all’estero (e svariati guai con la censura). In precedenza aveva già dato corpo a un altro omaggio ai suoi amati mangiatori di uomini con Ultimo mondo cannibale (1977).

 

 

 

About Gianmaria Contro
Nato a Milano, nel 1968, esordisce professionalmente come redattore del mensile di informazione editoriale La Rivisteria, nei primi anni Novanta. Nel 1998 realizza per Feltrinelli Il saggio Il mercato del terrore – mostri e maestri dell’horror. Di lì a poco, avvia la collaborazione con la Sergio Bonelli Editore, nella cui struttura sarà stabilmente accolto a partire dal 2002. In questo periodo collabora anche, sporadicamente, al magazine CondeNast GQ e, continuativamente, alla realizzazione delle riviste HorrorMania e ThrillerMania delle Edizioni Master. Nel frattempo confeziona saggi introduttivi e postfazioni per varie case editrici (Mondadori, Gargoyle Books, Addictions, Coniglio Editore…) e occasionali contributi per alcuni periodici.

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