Cinema Quando l’horror è d’autore

Quando l’horror è d’autore

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Oggetti isolati, capolavori reali o mancati che brillano irraggiungibili nella loro unicità, excursus o esercitazioni o spedizioni (non) punitive di grandi maestri del cinema nella giungla del nostro genere preferito e spesso non definibili proprio in quanto “genere”.

Perché in molti casi sul confine del cinema della paura la pertinenza del genere, per fortuna, non esiste. Sono spesso scrigni inespugnabili non sempre di facile interpretazione ammesso e personalmente non concesso che certo cinema “alto” si debba a tutti i costi interpretare. Ma esercitano, e continueranno a esercitare, un fascino cui è difficile sottrarsi. E ogni tentativo puerile d’ingabbiamento, anche nostro – che so, horror d’essai o horror d’autore – non rende affatto l’idea. Peraltro il paradosso è dietro l’angolo, perché stilemi e tematiche tipiche dell’horror vi sono coinvolte a pieno titolo. Ma restano, e resteranno sempre, film-categorie a sé stanti.

Per evitare che il discorso si faccia fumoso, vi propongo come esempio la seguente terna: Images di Robert Altman 1972,  Picnic a Hanging Rock di Peter Weir del ‘75 e L’australiano del 1978 di Jerzy Skolimowski, film che, si noterà, appartengono tutti a quel decennio fondamentale in cui il cinema, un po’ dappertutto, osava e sperimentava soprattutto all’interno dei generi popolari quali l’horror. Anni in cui mostri già sacri quali Roman Polanski con Rosemary’s Baby e William Friedkin con L’esorcista si “sporcavano le mani”, per capirci, in un filone sino a poco tempo prima considerato di serie B. Si tratta di tre film in cui in ruolo predominante lo gioca la riemersione dell’inconscio. Dove i protagonisti si smarriscono in dimensioni “altre” che l’autore, più che visualizzare, evidenza per allusione. E dove la paura riesce a filtrare per “sottrazione” e non per “esibizione” A rinfrescare le memorie e magari invitare chi non li hai visti a farlo, partiamo proprio dal film di Altman.

Altman

Images, per usare le stesse parole del grande regista scomparso nel 2006, è la storia di un essere umano che diventa qualcun altro, un tema caro a un autore come Polanski che lo declinato in modo mirabile in Repulsion del ‘65 e ne L’inquilino del terzo piano del ‘76. Vi si narra di una donna che di mestiere scrive fiabe e che vive in una casa isolata dove ben presto sarà preda dei fantasmi creati dalla sua stessa mente. Ad Altman, grande navigatore tra i generi (giusto per andarci oltre), non interessano affatto i meccanismi tipici del thriller horror: nella sua pingue e bella filmografia gli oggetti misteriosi non mancano proprio (dai fantascientifici Conto alla rovescia e Quintet al grottesco Anche gli uccelli uccidono, dall’onirico Tre donne al noir Il lungo addio, tutte pertinenze di comodo, sia chiaro…) e Images in questo è forse il più estremo di tutti, perché, rivisto quarant’anni dopo, è ancora un notevole saggio di cinema che nel ‘72 ha avuto il coraggio di rompere le regole a dispetto dello spettacolo e delle false aspettative di chi entrò in sala credendo di vedere un altro film (era giusto l’epoca degli schizoidi assassini di Argento e la sua scuola). Però fa paura. I fantasmi che sono anche fantasmi-immagine alterano la percezione e scompongono la realtà, il doppio della protagonista a sua volta si sdoppia e si scompone. La donna vede sé stessa qua e là in un crescendo di intrusioni brutali dell’elemento fantastico che in futuribile prospettiva sarebbero degni di quel Mulholland Drive di David Lynch che, in quanto a film-categoria,  proprio non scherza.

Picnic a Hanging Rock

Picnic a Hanging Rock

Picnic a Hanging Rock (in Italia sottotitolato Il lungo pomeriggio della morte) lo vidi a Parigi nel ‘77 al Festival Internazionale del cinema fantastico dove vinse il secondo premio. Penso che ricordiate tutti la vicenda delle quattro adolescenti che s’inerpicano lungo una roccia misteriosa per scomparire in un nulla indefinito. Un enigma senza soluzione che Weir immerge in un’atmosfera trasognata e morbida, ma niente affatto tranquillizzante. «La vita è sogno, soltanto sogno, il sogno di un sogno», sussurra Miranda all’inizio del film, ma già nel ‘77 critica e spettatori non si accontentavano di crogiolarsi fra metafore e onirismi e ricorrevano proprio a uno dei grandi alfieri storici dell’horror per offrire al mondo interpretazioni di lettura. Saggisti come Jacques van Herp e Michael Caen parlarono di film “à la Lovecraft”, perché abbondavano appunti gli ingredienti tipici della narrativa dello scrittore di Providence, ovvero (alla rinfusa): il luogo “maledetto” che è il portale oltre il quale le ragazze spariscono, la magica atmosfera della roccia, i “segni” come gli orologi che si fermano e le unghie della superstite che appaiono spezzate, messaggi filmici che non sono affatto decodificabili e occultano, anziché svelare, i misteri. Ma è tutto il film – e non solo la prima parte lovecraftiana – a presentarsi come uno stupendo horror “in sottrazione”, con la macchina da presa che segue, come un’entità che spia da altre dimensioni, tanto la fuga delle ragazze quanto le vicende che avvengono al seguito della loro scomparsa. Una natura affascinante ma pericolosissima (come hanno dimostrato i due recenti Wolf Creek) e interni ambientati nell’Appleyard College che sembrano frammenti di oscure ghost stories in pieno contrasto con la luce solare, ma “oscura” pure lei, del primo tempo. E non sbagliò chi ai tempi paragonò l’enorme roccia fallica di Hanging Rock al monolito nero di 2001 odissea nello spazio di Kubrick e al reperto sepolto sotto la metropolitana de L’astronave degli esseri perduti di Roy Ward Baker, due titoli che si possono definire come “paralovecraftiani”, a dispetto persino dei loro autori.

The Shout,  L'australiano di Jerzy Skolimowski.

The Shout, L’australiano di Jerzy Skolimowski.

I confini tra l’horror e il mainstream si sgranano ancor di più in The Shout (L’australiano), firmato da quell’autore straordinario e sfuggente, nonché avaro di titoli, che ha firmato La ragazza del bagno pubblico e Essential killing, ovvero Jerzy Skolimowski. Anche qui, in odor di Peter Weir e di Australia alquanto sinistra, con l’espediente narrativo della “storia” nella storia (giusto per saperlo, la cornice si ambienta in una clinica psichiatrica della campagna inglese) si viene a conoscenza delle traversie del musicista Anthony, un tempo marito felice la cui vita ha cominciato ad andare in pezzi quando nella sua casa irrompe un misteriosissimo personaggio di nome Crossley, reduce da esperienze stregonesche con gli aborigeni australiani. In particolare Crossley sarebbe in grado di uccidere con la semplice emissione di un urlo spaventoso. Tutto giocato “in levare” con la progressione degli eventi che distruggono l’equilibrio della coppia e la sanità mentale di Anthony, la vicenda narrata diluisce nella cornice quando chi racconta confessa all’ascoltatore di essere lui stesso Crossley. In un possente e drammatico finale si scatena un temporale distruttivo sopra il manicomio e Crossley lancia al cielo il suo urlo, abnorme e terrificante,  morendo insieme al direttore della clinica e a un terzo malcapitato. Film disturbante e coinvolgente, tutto basato sulle percezioni sensoriali (soprattutto uditive: i suoni, i rumori, il racconto, l’urlo), The Shout è uno stupendo “horror d’autore”, girato magnificamente  e dedicato a coloro che credono nel potere della magia. Soprattutto, se viene dall’Australia.

Un tranquillo week-end di paura (Deliverance), 1972 di John Boorman

Un tranquillo week-end di paura (Deliverance), 1972 di John Boorman

Appartiene ancora al decennio in oggetto il film al contempo più impropriamente horror e, per paradosso, meno ascrivibile al nostro genere preferito. Stiamo parlando di Un tranquillo week-end di paura (Deliverance) di John Boorman (1972), opera che non si trova neppure nelle varie guide storiche del genere e  peraltro Boorman e James Dickey (autore del libro omonimo che ne firmò anche la sceneggiatura) erano certi che il film fosse una specie di western moderno declinante la più classica delle tematiche americane, quella del viaggio. Boorman, poi, trovò così indigesto l’horror tradizionale dal rifiutarne persino l’etichetta per il suo sequel de L’esorcista (L’esorcista 2L’eretico) per il quale arrivò a fatica ad accettare la definizione di “thriller metafisico”. Però, come in tanti casi (che ricorrono anche in questo special), esistono film che appartengono più al pubblico che agli autori. E Deliverance è un esempio canonico, perché tanti fan e molti autori di decenni a venire se ne sono arbitrariamente impossessati, ravvisando in quel film le coordinate di un survivalism mitologico e orrorifico che ancora oggi impazza dentro il genere, regalandoci perle come The Descent, Wolf Creek, Ruins nonché i cinque Wrong Turn, le varie colline con gli occhi e via splatterando. Del resto il viaggio è struttura portante del fantastico nelle sue varie diramazioni, dal fantasy al gotico. E Boorman e Dickey, piaccia o meno, sono da considerarsi gli iniziatori del survival travelling dentro un’America “in corsa con il Diavolo” dove i mostri della modernità hanno sostituito gli archetipi classici (i vari Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi e via declinando). In più Boorman ci mise tanto di suo per strappare il film a una limitante lettura realistica: quei colori desaturati che prendono gradualmente possesso della fotografia, il mitico dueling banjoes in apertura tra Drew e il ragazzino dai caratteri mongoloidi, la tensione insostenibile che cresce dopo la prima, più che spiazzante – violenza carnale subita da Bobby, quella minacciosa mano armata di fucile che emerge dalle acque nella scena finale. Un orrore metafisico che ti entra dentro e non ti lascia più. E questo per mano di un grande autore che dell’horror, come lo intendono i fan, non sapeva che farsene.

Angel Heart – Ascensore per l’inferno

Angel Heart – Ascensore per l’inferno

In verità, se per poche righe posso dar spazio al mio gusto personale, i brividi più genuini sono proprio venuti da contributi “esterni” al genere o da autori che, magari partiti proprio con l’horror, se ne sono liberati strada facendo. Tralasciando casi classici quali Shining di Kubrick o l’estremo e dirompente Possession di Andrzej Zulawski (1981), val la pena di ricordare l’ingresso nel genere quasi a gamba tesa di Damiano Damiani, Amityville Possession del 1982; il sulfureo noir di Alan Parker Angel Heart – Ascensore per l’inferno del 1987; il cannibalistico Ravenous (L’insaziabile) della compianta Antonia Bird del ‘99; il fantasmatico The Others (2001) di Alejandro Amenabar, che esordì peraltro con due ottimi thriller velati di fantastico, Tesis e Apri gli occhi; il raggelante Take Shelter di Jeff Nichols (2012), in cui l’orrore dell’Apocalisse resta implosa nella mente di un uomo disturbato sino a quando la catastrofe non trova la via per esplodere sul serio; lo stupendo – nonostante quel che potreste sentirne dire – e radicale Twixt di Francis Ford Coppola, un autore-chiave per capire dove va il cinema contemporaneo e che era partito un sacco di tempo fa proprio con l’horror (Dementia 13 – Terrore alla 13° ora del ‘63), transitando per il celebre e straordinario Bram Stoker’s Dracula. Qui ci sono peraltro le vampire che ci piacciono… Come peraltro capita in alcuni film di prossima o già avvenuta distribuzione. Perché, a ricordo di incursioni autoriali del recente passato nel mondo vampiresco (fra tutte: Nadja di Michael Alemeryda del ‘94,  The Addiction di Abel Ferrara del ‘95 e Brivido di sangue di Poh-Chih Leong del ‘98), ecco il ritorno di Neil Jordan alle trame dei succhiasangue (in questo caso giovani vampire…) con Byzantium, seguito dall’ingresso nientepopodimeno che di Jim Jarmush con Only Lovers left Alive,  la cui trama segue il musicista vampiro Adam che profondamente depresso dalla noia e dall’immortalità si riunisce con l’amante di vecchia data Eve, relazione però brutalmente interrotta dall’ingerenza di Ava, sorella folle e selvaggia di Eve. E infine, figlia d’arte sicuramente, essendo il frutto dell’amore fra Gena Rowlands e John, ecco irrompere Xan Cassavetes con l’impressionante e sanguinosissimo Kiss of the Damned, sempre con femmine vampire protagoniste che, oltre ad avere spodestato i maschietti sul fronte della “sete”, appaiono decisamente più glamour.

 

NOTA  1

Brandon Cronenberg, Xan Cassavetes, Sean Stone, Jennifer Lynch. Ovvero i figli d’arte impazzano. Se Antiviral di Brandon si presenta come un anacronistico ritorno alle origini del padre e Kiss of the Damned un bel mix di sangue ed erotismo anti-Twilight, Greystone Park del figlio di Oliver ci porta senza particolare originalità e con le solite videocamere traballanti all’interno di un manicomio abbandonato, faccenda di per suo più che sfruttata negli ultimi anni. Plauso allora alla figlia di David che con i suoi due thriller quasi horror, Surveillance e Chained, ha fatto decisamente centro. E restiamo in attesa di Hisss – The Snake Woman, una roba folle e visionaria ambientata in India che ci riporta agli anni Cinquanta e a un titolo indimenticabile quali Il culto del cobra.

 

NOTA 2

Nell’autunno del ‘72, mentre da Hollywood  giungevano le prime voci sulla lavorazione de L’esorcista, in Italia Mondadori pubblicò nell’autunno del ‘72 L’altro. di Thomas Tryon, autoreancora da riscoprire qui in Italia. Fluido, ipnotico, lo stile quieto che ti cattura subito e ti butta dentro anche quando per pagine e pagine “sembra che non accada nulla”, il libro viaggiava sui “giochi proibiti” di due inquietanti gemelli biondi – talmente identici da essere l’Uno lo specchio dell’Altro – e sulla catena di morti inspiegabili che circondava la loro esistenza. In realtà, stupenda trovata che si svela soltanto verso la fine, uno dei due, Holland, è già morto da tempo e il sopravvissuto, Niles, ne ha “allucinato” la presenza, facendone un maligno compagno di giochi che lo spinge a commettere omicidi e mostruosità in uno straordinario crescendo drammatico. Robert Mulligan, maestro sconosciuto del gotico americano (Il buio oltre la siepe, Lo strano mondo di Daisy Clover e L’uomo sulla luna), ne fece nello stesso anno l’unico titolo dichiaratamente horror della sua carriera (per quanto l’horror filtrasse spesso dai suoi film quasi “sottopelle” – persino un western come La notte dell’agguato fa paura…), trasponendo con abilità il libro di Tryon,  svelando  sin da subito l’inghippo del “fratello fantasma”, ma senza per questo obnubilare la terribile carica orrorifica della vicenda.

 

NOTA 3

Forse il più paradigmatico “oggetto isolato” a cavallo tra i generi, ma soprattutto in sella all’horror, è lo straordinario Night of  the Hunter (La morte corre sul fiume) del 1955, unico titolo da regista di un grande attore  che si chiamava Charles Laughton. Ovvero la più rigorosa lettura del mito notturno del Bogey Man, laddove Robert Mitchum interpretava il grottesco e teatrale predicatore pazzo e assassino Harry Powell che, all’interno di un set incubico molto espressionista, inseguiva con intenzioni omicide due fratellini canticchiando il religioso Leaning on Everlasting Arms. Lo videro senza dubbio King e Carpenter. E purtroppo oggetto di un demenziale remake televisivo del ‘91, intitolato in Italia Una famiglia in pericolo, diretto David Greene (da ricordarsi peraltro per un pregevole adattamento lovecraftiano. La porta sbarrata). Sacrilegio passato sotto silenzio forse per la sciatta bruttezza del TV movie. Tratto da un ottimo romanzo di Davis Grubb, ma il film di Laughton  doppia anche il libro per esistere in eterno nel mito.

 

NOTA 4

Il cinquantenne Gore Verbinski non è propriamente un autore perché facente parte di quella categoria di registi che uno come John Carpenter definisce con spregio “shooters”, capace di passare senza batter ciglio da Un topolino sotto sfratto ai film della serie Pirati dei Caraibi. Un ottimo mestierante che però per l’horror ha lasciato il segno. E un segno notevole perché il remake americano di Ringu, The Ring del 2003, non è affatto una copia carbone come sovente capita in queste operazioni, ma una rielaborazione finissima ben incuneata nella tradizione gotica in salsa New England. Come ha ben spiegato l’amica Sacha Rosel in un suo storico articolo sulle differenze tra i due film, il più significativo elemento di novità è rappresentato dall’ossessiva presenza dei cavalli, animali americani per eccellenza che la demoniaca Samara ha il potere di uccidere. E “la sequenza che vede un cavallo impazzito finire in un bagno di sangue nell’acqua dell’oceano, rappresenta insieme la cifra stilistica del film, più basato sulla spettacolarizzazione dell’inquietudine rispetto all’originale giapponese, e la spia di un’identità culturale punta nel vivo della sua mitologia.” (Sacha Rosel, Thriller Magazine, Ringu/ The Ring,  gennaio 2007)

 

NOTA 5

Qualche volta capita. Grandi autori di cinema alto che sbagliano del tutto l’approccio nel maneggiare il gotico. E’ successo nel 1968 a Elio Petri, autore di Indagine su un cittadino al sopra di ogni sospetto. Complice il periodo storico (poco adatto ai fantasmi dell’horror) e il trattamento di Tonino Guerra, Elio Petri porta sullo schermo un celebre racconto dello scrittore inglese Oliver Onions, La bella adescatrice, e l’angosciante presenza maligna di una casa infestata diventa una parabola sull’alienazione dell’intellettuale che, per dirla con parole dello stesso Petri, “fugge verso i fantasmi della cultura romantica” per evitare l’omologazione artistica. E così, purtroppo, Un tranquillo posto di campagna resta ancora, come allora, un film freddo, algido e fuori genere.

About Danilo Arona
Danilo Arona (Alessandria, 28 maggio 1950) è uno scrittore, giornalista e saggista italiano. Per anni si è occupato di narrativa fantasy e mistery, tenendo conferenze sulla letteratura fantastica e collaborando alla scrittura di sceneggiature. Ha scritto saggi sul cinema dell'orrore e su alcuni esponenti di punta di questo tipo di cinema, quali Wes Craven e Stephen King. Ha pubblicato, tra gli altri, con la Mondadori, Marco Tropea, Gargoyle Books, Corbaccio, Dario Flaccovio e Mezzotints.

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