Cinema La faccia nascosta dell’orrore

La faccia nascosta dell’orrore

Assassini mascherati, privi di volto come di scrupoli. Inarrestabili e disumanizzati. Quale significato si nasconde dietro alla maschera, simbolo inquietante che affonda le sue radici nella notte dei tempi?

Facciamo un esperimento, volete? Provate a sforzarvi e tornate con la memoria alla vostra infanzia. Avete sei, sette anni, il carnevale si avvicina, e smaniate per indossare il costume del vostro eroe preferito (o qualsiasi porcheria vostra madre sia disposta a comprare spendendo gli ultimi risparmi). Indossate il costume, completo magari di un mantello e qualche arma letale di vario genere, e finalmente arriva il momento fatidico: quello di indossare la maschera.

Non appena cala sul vostro volto, qualcosa, una specie di brivido, vi corre lungo la schiena. Avete sette anni ed è ancora presto per le considerazioni più profonde, ma siete già in grado di capire – a livello istintivo – quanto il gesto di nascondere il viso per impersonare qualcun altro, sia una magia potente. Non siete più voi. La gente vi guarderà e non vedrà un moccioso della prima elementare, ma vedrà Batman, l’Uomo Ragno, un pirata o un fantasma…

Magia davvero potente.

E’ qualcosa che abbiamo dentro, celato nella parte più ancestrale del nostro spirito. Qualcosa che incuriosisce, affascina e spaventa al tempo stesso. Un rito magico e religioso che risale alla notte dei tempi, e assume significati diversi a seconda dei popoli, delle epoche e delle situazioni. Nella maggior parte delle culture africane tradizionali, indossare una maschera vuol dire impersonare lo spirito che la maschera rappresenta e mettersi in contatto con entità che trascendono la nostra realtà. Lo sciamano, lo stregone indossa una maschera, inscena un rituale e parla con gli avi, con gli spiriti e coi demoni. Perché noi siamo il nostro volto e cancellarlo assumendo altre fattezze, significa perdersi per diventare qualcos’altro.

Il significato del termine maschera

Anche il solo etimo della parola maschera è affascinante e misterioso. Probabilmente deriva dal latino medioevale màsca (strega) che potrebbe avere origine dall’antico tedesco e dal provenzale masc (stregone). Successivamente, il termine assunse il significato di fantasma, usato per indicare l’aspetto camuffato per incutere paura. E’ anche accreditata la possibilità di derivazione dalla locuzione araba maschara o mascharat, buffonata, burla. Come vedete, anche il nome stesso dell’oggetto nasconde la sua doppia natura festosa e terrificante.

La funzione e la finzione della maschera

Esempio di maschera rituale

I primi a usare la maschera per uno scopo non religioso o rituale, furono i greci. Nel teatro greco del VI° secolo a.C., infatti, la maschera acquisì la simbologia che possiede tuttora: nascondere il volto di chi la indossa e proporre una nuova identità. Le maschere del teatro greco erano assai semplici, mostravano emozioni facili da decifrare (gioia o tristezza) e avevano anche la funzione di amplificare la voce degli attori.

L’evoluzione dell’uso teatrale della maschera, tuttavia, è da attribuirsi proprio a noi italiani, grazie alla commedia dell’arte dove le maschere divennero veri e propri personaggi simbolici, archetipi di vizi e virtù umane. Uno su tutti, pensate ad Arlecchino, che potremmo definire un progenitore – molto meno inquietante – delle figure assai ben note del cinema horror contemporaneo delle quali parlerò tra poco.

In questo senso, la maschera nella finzione teatrale diventa tutt’uno col personaggio, non è più un oggetto ma diventa un simbolo. Tanto per farvi un esempio, Jason Voorhees, la creatura di Sean Cunningham e Victor Miller protagonista degli episodi della saga di Venerdì 13, è – a tutti gli effetti – la sua maschera da Hockey su ghiaccio. Basta vedere quella, per riuscire a immaginare il caro Jason che deambula impugnando un machete, pronto a fare strage. Eppure si tratta di una comunissima maschera da Hockey (schizzi di sangue a parte).

Ecco che allora nell’horror, vediamo accadere qualcosa di affascinante: la maschera definisce il personaggio e nel contempo, il personaggio definisce la maschera. Finché Jason, nel terzo film della serie, non indossa proprio quella maschera, è un maniaco omicida qualunque e la maschera altro non è che un attrezzo sportivo come tanti. Ma una volta messi insieme uomo e maschera (quell’uomo con quella maschera) ecco che si manifesta la magia.

E nasce una icona.

Analizzando le più fortunate icone mascherate dell’horror, siamo addirittura in grado di ritrovare caratteristiche comuni che ci fanno pensare a come, in realtà, non tutte le maschere riescano nel loro intento. Perché la maschera assolva alla sua funzione di inquietante generatore di mostri e incubi, infatti, è quasi d’obbligo (a giudicare da quanto ci è dato osservare) che sia semplice, quasi asettica, presenti una sostanziale assenza di colore tanto da ricordare il pallore della morte, e sia priva di occhi, ridotti sempre a due pozzi neri e senza vita nei quali lo spettatore può vedere galleggiare le proprie paure peggiori.

Insomma, la maschera altro non è che lo specchio inanimato delle nostre stesse paure, incollato sul viso di energumeni grandi, grossi e armati di cattiveria senza fine: Jason Voorhees (Venerdì 13), Michael Myers (Halloween), Leatherface (Non aprite quella porta) e Ghostface (Scream), tutti accomunati da maschere con le medesime caratteristiche.

Maschere italiane

Una maschera maledetta e una strega sono al centro della vicenda di due film italiani, uno il remake dell’altro, firmati – e qui sta la curiosità – l’uno dal padre e l’altro dal figlio. La maschera del demonio, questo il titolo di entrambe le pellicole, ha al centro della vicenda una strega seppellita con una maschera maledetta. I ragazzi che troveranno la strega, saranno causa della liberazione dello spirito assetato di vendetta. Il primo film, del 1960, è un caposaldo dell’horror nostrano (e internazionale) firmato dall’indimenticabile Mario Bava, nel quale viene lanciata l’icona del nostro cinema di tensione, Barbara Steele. Il suo remake, del 1989, è invece firmato dal figlio del regista, Lamberto.

 

Jason Voorhees: solo di venerdì

Il caro, vecchio, pazzo Jason.

Protagonista di dodici pellicole (che comprendono un remake e dieci sequel) Jason è diventata una delle icone dell’horror contemporaneo grazie all’insistenza dei produttori di Hollywood. Se pensate, infatti, che indossa la maschera che l’ha reso celebre solo dalla terza pellicola della serie (Venerdì 13: weekend di terrore, del 1982 firmato da Steve Miner) e che nel primo capitolo della saga (il migliore della serie) del 1980, Jason è solo un bambino e a far danni è la cara mammina, capirete come la maschera da Hockey sia in realtà stato un azzeccatissimo espediente narrativo per dare a Jason un non-volto riconoscibile, così da poterne sfruttarne la celebrità per i film a seguire. Una volta comparsa la maschera, però, il corpo e le motivazioni di Jason sono quasi diventati orpelli inutili: era diventata talmente famosa la maschera, infatti, che pur di poter continuare a sfruttarla di film in film, gli sceneggiatori hanno fatto i salti mortali, snaturando quanto raccontato nelle prime tre pellicole e trasformando il disadattato omicida della foresta di Crystal Lake prima in uno zombie (Venerdì 13: Jason vive, del 1986), poi in un demone (Jason va all’inferno, 1993) e infine addirittura un cyborg (Jason X, 2002).

 

Michael Myers: this is Halloween

Michael Myers indossava la maschera del Capitano Kirk di Star Trek...

E’ il progenitore oscuro di tutti i boogeyman mascherati, il primo, il più grande, mai eguagliato e sempre imitato. Una forza della natura che ha influenzato il genere horror come pochi altri personaggi sono stati in grado di fare. Creatura di puro male ideata da quel genio di John Carpenter per il film Halloween, la notte delle streghe (1978), un film partito per essere un semplice slasher girato con pochi soldi e divenuto invece una pellicola rivoluzionaria per il cinema americano. Michael Myers è l’archetipo dell’assassino seriale che cancella la propria identità – fatta di miserie e dolore – a favore di una nuova personalità asettica, determinata e omicida. Indossare la maschera, per Michael, significa cancellare le proprie sofferenze (l’infanzia di Michael non è esattamente un cartone firmato Disney), e dare libero sfogo alle pulsioni omicide senza sensi di colpa o freni inibitori.

Michael è inarrestabile, non dorme, non sente dolore. Si muove quasi a scatti, muto e inespressivo, come un pupazzo. Lo vediamo e non capiamo quali siano le sue emozioni, la sua maschera misteriosa è fonte di ansie per chi la guarda. E’ il volto della morte e siamo terrorizzati alla sua sola vista. Eppure quella maschera agghiacciante ha una genesi a dir poco curiosa. Fu realizzata partendo da una maschera del Capitano Kirk, quello di Star Trek, modificata allargando i buchi degli occhi, togliendo i capelli e dipingendo di bianco la pelle. Potreste immaginare qualcosa di più innocuo della faccia del Capitano? Eppure addosso a Michael, quel viso è diventato un incubo per milioni di appassionati.

 

Leatherface: bambino cattivo

Di pelle umana, ma pur sempre maschera...

 

Faccia di cuoio (questo il suo nome italiano) è un macellaio ritardato armato di motosega che vive con una famiglia di bifolchi fuori di testa in una catapecchia sperduta nel profondo Texas. Nel cult a basso costo diretto da Tobe Hooper Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre) del 1974, vediamo nascere il mito di questo bambinone timido e dal carattere debole, vessato dalla propria famiglia, ma che si rivale su poveri malcapitati viaggiatori facendoli a pezzi e cucinandoli. Un colosso che nasconde il proprio volto deforme dietro a una maschera dalla quale non si separa mai, realizzata con la pelle delle sue vittime, l’emblema più evidente della morte e del disagio. Leatherface è più simile a Jason che a Michael, ma qui entra in gioco la carne. La maschera che indossa Faccia di cuoio non solo è simbolo di quello che vorrebbe essere, ma è addirittura l’essenza stessa, fisica, di altre persone. Indossando la loro faccia nasconde la propria deformità e il proprio disagio e diventa queste persone.

Il volto alternativo che Leatherface crea con le proprie mani, non è in realtà una semplice invenzione cinematografica, ma si ispira a un fatto realmente accaduto. Non è un mistero, infatti, che il famigerato serial killer Ed Gein (la cui vita è assai simile a quella del nostro caro faccia di cuoio) fosse uso a scuoiare le proprie vittime per fabbricare maschere e abiti da indossare nelle notti di luna piena.

 

Ghostface: sarcasmo è il mio secondo nome

Maschera bianca e veste nera: semplice, essenziale, efficace.

Il cerchio si chiude con l’esercizio citazionistico di Wes Craven e del suo Scream (1996), pellicola che riprende le caratteristiche dei vecchi slasher e ci gioca con una buona dose di satira. Anche il villain, il cattivo di turno, altro non è che una citazione sarcastica delle maschere che sinora abbiamo visto, un loro contraltare distorto ma comunque efficace e che – paradossalmente – è divenuto altrettanto esemplare delle stesse maschere tragiche su cui voleva ironizzare. Le caratteristiche peculiari sono le stesse (pallore, occhi vuoti…) ma al contrario delle precedenti non è inespressiva. Il serial killer infatti, si nasconde dietro a una maschera bianca che ricorda L’urlo celebre dipinto di Edvard Munch. Il gioco di Craven, quindi, non fa che rimarcare la potenza della simbologia della maschera.

 

 

 

About Andrea G. Colombo
E’ qui praticamente da sempre. Ha dato vita a Horror.it, Horror Mania (la rivista da edicola) e Thriller Mania. E visto che si annoiava, ha pure scritto il romanzo Il Diacono. Si occupa della gestione del sito rinchiuso nel suo antro dal quale non esce quasi mai. Risponde alle mail con tempi geologici.

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