Cinema BRITISH HORROR CINEMA

BRITISH HORROR CINEMA

Great-Britain-Flag

Il brivido letterario sulla schiena del gotico cinematografico inglese.


Henry JamesE’ singolare come uno dei più importanti punti di riferimento letterario del British Horror Cinema fosse in realtà di origini americane. Ma è un dato di fatto: Henry James, autore del seminale Giro di vite, nacque a New York nel 1843 e nel 1876 chiese e ottenne la cittadinanza britannica perché si sentiva più inglese che yankee. La sua vita e opera da sole varrebbero uno special ma qui non è spazio e allora veniamo brevemente a quel capolavoro di soprannaturale ambiguità che è stato Giro di vite, pubblicato per la prima volta nel 1898, riscritto per il teatro da William Archibald e trasformato in libretto operistico, ancora oggetto di rappresentazioni in tutto il mondo, dal compositore Benjamin Britten e dal paroliere Myfanwy Piper. Non si tesseranno mai le opportune lodi di questo racconto lungo, vera bibbia dell’ambiguità percettiva, che ha fornito e continua a fornire al cinema ben più materiali di quanto facciano intendere le oltre venti versioni ufficiali (che potete scoprire in ordine cronologico nel box 1), a dispetto del fatto che quelle viste in Italia sono soltanto quattro, ovvero Clayton, Winner, Lemorande e la versione televisiva di Serafini, passata su Canale 5 nel 2008.

La prima è quella giustamente più famosa, la più british per eleganza, allusione e intimo DNA, aderente in modo congruo agli intenti narrativi e introspettivi di James e ambientata in una straordinaria Bly House  – un’autentica, splendida villa gotica di Sheffield Park, nell’East Sussex, fotografata in modo sublime da Freddie Francis e infestata alla pari dell’anima della governante Miss Giddens, un’isterica quanto perfetta  Deborah Kerr –, pellicola intitolata in Italia Suspense che con  Gli invasati di Robert Wise, resta tuttora un classico che il cinema gotico, soprattutto il nascente horror italiano degli anni Sessanta, ha omaggiato in modo cospicuo e manifesto. Giusto per citare un caposcuola, i due bimbi pestiferi di Reazione a catena di Mario Bava sono una evidente macro-citazione dei fantasmi jamesiani.

Arriva il 1970 e al regista Michael Winner, che legherà il suo nome a  noir metropolitani quali Il giustiziere della notte e Professione assassino (ma anche al notevole horror demoniaco Sentinel) viene recapitato uno script dello scrittore Michael Hastings che, con audacia sacrilega, propone un prologo, niente affatto soprannaturale, a Giro di vite. E di sicuro James si rivolta nella tomba perché la sua raffinata ambivalenza è andata a farsi benedire. Hastings infatti visualizza il non detto e il non visto, ovvero il giardiniere Peter Quint e l’istitutrice Jessel intenti a intrattenere una violenta e perversa relazione sessuale di cui si dilettano i bambini di Bly, Flora e Miles, che li imitano e li rappresentano nei loro comportamenti, infantile versione di mènage sadomasochistico. I ragazzini, in questo caso sul serio diabolici senza interventi dall’aldilà, non possono però permettere ai loro cattivissimi maestri di andarsene come vorrebbero e allora li uccidono, applicando proprio l’assioma di Peter Quint “a volte si deve uccidere per troppo amore”. All’epoca Hastings, per giustificare la ferocia dei suoi pupattoli, dichiarò ai giornali che James non se intendeva poi così tanto di psicologia infantile. Perché i Flora e Miles originali erano “troppo” innocenti, come peraltro dichiarava il titolo originale del film di Clayton.

«Nella nostra versione la responsabilità della dannazione di Flora e Miles non è tutta a carico di Quint. I bambini, in quelle età di passaggio, sono veramente perversi polimorfi. E, se li rinchiudi in una grande casa piena di servitori e di segreti, puoi scommettere che dopo un po’ di segreti non ne esisteranno più. Ammetto che da parte mia ci sia stato un vergognoso esercizio da mania di grandezza nel  tentativo di scrivere un prologo a  Giro di vite. Ma il mio libro The Nightcomers non è affatto jamesiano. E quel furbone di Winner ha risolto i problemi aumentando sullo schermo l’età dei bambini. Quelli dell’originale avevano 9 e 10 anni, i nostri 13 e 14. Tutta un’altra musica.» Comunque Improvvisamente un uomo nella notte, per quanto interessante sotto il profilo del prolungamento immaginario del mondo spettrale di James e con un superbo Quint interpretato da Marlon Brando, è purtroppo lento, senza mordente, e l’assenza dichiarata delle componenti  “spettrali” diventa sul serio un difetto.

quatermass

The Quatermass Xperiment – 1955

L’aver chiamato Henry James ad aprire la nostra disamina  sul British Horror Movie ha un preciso significato. L’horror filmico di Albione vive infatti proprio di un fecondo rapporto simbiotico con i grandi maestri della parola scritta che lì sono nati. Dai classici (Bram Stoker, Mary Shelley, Arthur Conan Doyle, Robert Louis StevensonHenry Rider Haggard, l’irlandese Sheridan Le Fanu) a tanti altri moderni (Nigel Kneale, John Whyndam, Dennis Wheatley, H.L. Lawrence, John Blackburn), i destini del gotico e del fantastico viaggiano di pari passo con gli alti e bassi della  gloriosa casa produttrice Hammer, tallonata con poca speranza dalle concorrenti Amicus, Tigon e Charlemagne. Una contesa più apparente che reale che però genera notevoli pellicole nonché tendenze che ancora oggi fanno scuola e reggono al tempo – si veda ad esempio la formula dei film a episodi della Amicus. Se volessimo individuare un anno e un titolo di partenza in ottica premoderna, non abbiamo dubbi: 1955 con L’astronave atomica del dottor Quatermass (The Quatermass Xperiment) di Val Guest, che sancisce le nozze tuttora consumate tra fantascienza e orrore con la trasformazione gelatinosa e tentacolare dell’astronauta Carroon contagiato nello spazio da una misteriosa forza aliena, storia plagiata senza pietà nel dimenticabile The Astronaut’s Wife del 1999. Da qui inizia l’escalation della Hammer nel genere con picchi memorabili che s’intitolano La maschera di Frankenstein di Terence Fisher e I vampiri dello spazio (il secondo film su Quatermass), ancora di Guest, ambedue del ’57, Dracula il vampiro di Terence Fisher (1958), La mummia  nel ’59, L’implacabile condanna, Le spose di Dracula e Il mostro di Londra, tutti del ’60 e ancora firmati da Fisher. E a seguire, sino al ’79, anno fatale della bancarotta economica, la politica della poetica horror prosegue con varianti vampiriche tra Stoker e Sheridan Le Fanu (Dracula principe delle tenebre, Le amanti di Dracula, Una messa per Dracula, Il marchio di Dracula, Le figlie di Dracula, 1972 Dracula colpisce ancora, I satanici riti di Dracula, Vampiri amanti, Mircalla l’amante immortale), thriller sul confine dell’horror “alla Psyco” (Maniac, Il rifugio dei dannati, L’incubo di Janet Lind, Fanatic, Hysteria, Crescendo con terrore, Paura nella notte), vitalissime svisate sui archetipi quali Frankenstein, Jekyll e  La Donna Eterna (l’Ayesha creata da Henry Rider Haggard), il più solido antesignano degli zombie di Romero, ovvero La lunga notte dell’orrore di John Gilling del ’66, nonché un ottimo esempio di fantastico “alto” firmato da Joseph Losey, The Damned, in Italia Hallucination. Dobbiamo per forza sintetizzato, omettendo anche parecchie opere, ma non si può chiudere la voce Hammer senza accennare alle splendide serie TV, prodotte poco dopo la crisi (Hammer House of Horror del 1980 e Hammer House of Mystery and Suspense del 1984), nonché alle due icone per antonomasia Peter Cushing e Christoper Lee, ovvero Van Helsing e Dracula (che spesso si prestavano ad altri ruoli in cui Lee giocava pure di tanto in tanto a “fare il buono”). E infine si deve ricordare l’estetica Hammer, elegante, allusiva, curatissima negli interni, alla ricerca – soprattutto agli inizi – più della suggestione che dell’effetto a tutto campo, con location esterne nebbiose, angoli in chiaroscuro alla ricerca di un senso vittoriano del gotico classico, operazione ripresa in anni più recenti da Tim Burton.

Wolf Rilla

In qualche modo stimolata dal fervore esplorativo della Hammer è l’uscita nel ’60, prodotta da una major come la Metro Goldwin Mayer, di uno dei più seminali film fantahorror di tutti i tempi, Il villaggio dei dannati di Wolf Rilla tratto da I figli dell’invasione di John Wyndham, celeberrimo autore di capolavori quali Il giorno dei Trifidi, Il risveglio dell’abisso e I trasfigurati. Sul mio taccuino personale (ma si può anche non essere d’accordo…), il film dal quale tutto un sottofilone dell’horror, quello ribattezzato da Fangoria dei Demon Children, ha inizio e ancora non smette di prolificare. Nella vicenda – che tutti, presumo, ricordate – dei bambini alieni con superpoteri telepatici e occhi che mostrano il bianco quando la “covata malefica” pensa e agisce all’unisono, sono già presenti tutte le intuizioni, tematiche e formali, in seguito massivamente declinate in una ideale serie a venire di gravidanze aliene e/o demoniache, bambini malefici con o senza l’intervento di Belzebù, baby killer, figli del granturco ed esorcisti in camera da letto alla caccia della Cosa sotto la Pelle. Replicato in un falso sequel del ’64, La stirpe dei dannati di Anton Leader, e dal remake in sottrazione firmato da John Carpenter nel ’95, Il villaggio dei dannati resta un oggetto filmico non scalfito e non scalfibile dal tempo, inquietante al cubo senza far scorrere un goccio di sangue, testimonianza di un’epoca in cui l’infanzia e la preadolescenza erano viste come mostruosità incomprensibili e quindi da eliminare. Forse proprio per questo ancora drammaticamente attuale. Ma se esiste poi un film “inglese” nell’approccio stilistico, quale meglio di questo? Con un bianco e nero epocale, un George Sanders signorile e compassato che investiga il mistero con movenze alla Holmes, con l’atmosfera della piccola città di Midwich che diviene sempre più brumosa e soffocante man mano si procede verso l’imbuto finale. Ah, e da dove pensate abbia sfilato il buon zio Stevie l’idea portante di The Dome? Per ore Midwich all’inizio viene isolata dal mondo esterno da una invisibile cupola che la taglia fuori dal mondo… visto recentemente, giusto?

In anni più recenti la Hammer rinasce, partendo quasi in sordina nel 2007 con la serie TV dal titolo Beyond the Rave, e poi producendo per il grande schermo The Resident, horror condominiale firmato da Antti Joniken con un significante cameo di Chris Lee,  il paganeggiante e ottimo Wake Wood di David Keating e Blood Story di Matt Reeves (quello di Cloverfield), remake americano dell’horror svedese Lasciami entrare tratto da Lindqvist. E un autentico successo economico viene ottenuto di The Woman in Black, interpretato dall’ormai cresciuto interprete di Henry Potter, Daniel Radcliffe, discreta  ghost story tratta dall’omonimo best-seller di Susan Black, in cui  si ripropone con evidenza l’antico marchio di fabbrica,  quel  gothic touch atmosferico tipico della scuola inglese. I progetti futuri,  ricchi e appetitosi, prevedono l’inevitabile sequel, The Woman in Black – Angel of Death, con l’infestazione che riprende “vita”  quarant’anni dopo la prima; The Quiet Ones di John Pogues, cui professori e studenti di fisica per una volta uniti concorrono alla creazione di un maligno poltergeist; Gaslight del duo norvegese Ronning/ Sandberg  in cui Jack lo Squartatore scoperto e messo in galera diviene consulente di Scotland Yard,  e un nuovo adattamento teatrale di Giro di vite, scritto da Rebecca Lenkiewicz, che uscirà in DVD. Praticamente un ritorno alle origini.

blood

Blood Story – Matt Reeves

Purtroppo lo spazio non ci consente di più. Ma vanno obbligatoriamente segnalati ancora: il leggendario e mai visto in Italia The Wicker Man (un’isola, una setta pagana, il sacrificio rituale sul gigantesco Uomo di Vimini) di Robin Hardy del ’73;  i film di Neil Marshall (Dog Soldiers, The Descent, Doomsday), le incursioni horror di Ken Russel (Gothic e La tana del serpente bianco, tratto da Stoker) e dell’irlandese Neil Jordan (In compagnia dei lupi, In Dreams  e Ondine); memorabili titoli di Nicholas Roeg (A Venezia un dicembre rosso shocking e Chi ha paura delle streghe?) e di Robert Fuest (Il mostro della strada di campagna e L’abominevole dottor Phibes); le tante ricadute filmiche e per il piccolo schermo dello scrittore-regista Clive Barker; e un mare di titoli di una new wave quanto mai interessante. Tra gli altri: 28 giorni dopo di Danny Boyle, 2002, Eden Lake di James Watkins, 2008; Mum & Dad di Steven Sheil 2008, The Cottage di P.A. Williams, 2008;  Triangle di Christopher Smith, 2009; Hush (Panico) di Mark Tonderai, 2009; Inbreed di Alex Chandon, 2010; il trittico Little Deaths di Hogan / Parkinson / Rubley, 2011; Don’t Let Him In (La casa nel bosco) di Kelly Smith, 2011; Berberian Sound Studio di Peter Strickland, 2012. Davvero una messe di titoli che non possiamo liquidare così con una semplice list e sulla quale torneremo al più presto con un nuovo speciale.

 

NOTE 1

Vale davvero la pena di elencare le tante versioni, filmiche e televisive, di Giro di vite. Eccole in ordine cronologico: The Turn of the Screw (TV) di Seymour Robbie (USA, 1995), The Turn of the Screw (TV) di John Frankenheimer (USA, 1959), Suspense (The Innocents) di Jack Clayton (Gran Bretagna, 1961), Improvvisamente un uomo nella notte (The Nightcomers) di Michael Winner (Gran Bretagna, 1972), Le tour d’écrou (TV) di Raymond Rouleau (Francia, 1974), The Turn of the Screw (TV) di Dan Curtis (USA, 1974), The Turn of the Screw (TV) di Petr Weigl (Germania, 1982), Oltra vuelta de tuerca di Eloy de la Iglesia (Spagna, 1985), The Turn of the Screw (TV Nightmare Classics) di Graeme Clifford (USA, 1989), The Turn of the Screw – Die Drehung der Schraube (TV) di Claus Viller (Germania, 1990), Presenze (The Turn of the Screw) di Rusty Lemorande (Australia, 1992), The Haunting of Helen Walker (TV) di Tom McLoughlin (USA, 1995), The Turn of the Screw (TV) di Ben Bolt (USA, 1999), Presence of Mind di Antoni Aloy (Spagna, USA, 1999), Le tour d’écrou (TV) di Vincent Bataillon (Francia, 2001), Turn of the Screw The di Nick Millard (USA, 2003), The Turn of the Screw by Benjamin Britten di Katie Mitchell (Gran Bretagna, 2004), In a Dark Place di Donato Rotunno (USA, 2006), Il mistero del lago (TV) di Marco Serafini (Italia, 2008); The Turn of the Screw (TV) di Tim Fywell (Gran Bretagna, 2009). Dal momento che Giro di vite è anche un’opera lirica di Benjamin Britten tratta sempre dal racconto di James, occorre tener conto che alcuni di questi titoli (Weigl, Viller, Bataillon, Mitchell) sono in realtà rappresentazioni sul palco filmate in diretta.

 

NOTE 2

All’elenco dei film manifestamente influenzati da Giro di vite andrebbero aggiunti a onor di completezza The Others di Alejandro Amenabar che è una rielaborazione, molto libera e personale – e molto British Hammer – del testo di James e il vecchio, bellissimo, Altman Images del ’72, dove Susannah York vede fantasmi in piena sindrome Miss Giddens. Goffredo Fofi, in pieno femminismo, li definì “fantasmi uterini”.

 

NOTE 3

Fondata all’inizio degli anni Sessanta da Milton Subotsky e Max Rosenberg sull’onda dei successi della Hammer, la Amicus tentò di differenziarvisi con un touch stilistico più esplicito e soprattutto con la formula degli episodi contenuti in una cornice narrativa, che poi a sua volta è l’episodio conclusivo. Indimenticabili Le cinque chiavi del terrore (1964), La casa che grondava sangue (1970), Racconti dalla tomba  e La morte dietro il cancello (1972) e La bottega che vendeva la morte (1973,  – per quest’ultimo non si può non citare l’indimenticabile vampiro imprigionato dentro uno specchio (nel primo episodio, The Gate Crasher)  che geme per tutto il tempo “Nutrimi, nutrimi”, manipolando la mente già labile di un incauto acquirente. Anche nella Amicus scorrerie a tutto campo del duo Lee/ Cushing che con evidenza non avevano firmato esclusive.

 

NOTE 4

La terza incomoda degli anni Sessanta fu la Tigon di Tony Tenser, già accorto produttore di Repulsion di Polanski, che certo sfornò nel suo decennio di vita qualche pellicola discretamente trash (Mostro di sangue di Vernon Sewell, Galaxy Horror di Gerry Levy, Messe nere per le vergini svedesi di Ray Austin), ma ebbe l’incontestabile merito di produrre i ottimi film di Michael Reeves Il killer di Satana e Il grande inquisitore. Un talento bruciato troppo presto perché Reeves morì a 25 anni di overdose.

 

NOTE 5

Bisogna anche citare la Charlemagne, casa di produzione fondata all’inizio degli anni Settanta nientemeno che da Chris Lee in team con il fuoriuscito Hammer Anthony Nelson-Keys allo scopo di creare un’alternativa alla Hammer più cerebrale, metafisica, e meno sanguinosa. Anche perché la Charlemagne vanta il record negativo numerico di opere prodotte, ovvero una, Nothing but the Night di Peter Sasdy, passato da noi in piena “zombite” come Il cervello dei morti viventi. Da un romanzo splendido  di John Blackburn, autore da riscoprire, Solo la notte scritto nel ’68 e qui pubblicato nel ’73 (uno dei tre pubblicati in Italia tutti quanti dedicati al progenitore degli investigatori scientifici Marcus Levin – gli altri sono La morte viene col vento del ’59 e Lo scienziato e il diavolo del ’75), racconta di incredibili “trapianti di mente” di adulti deceduti nei corpi di innocenti bambini. Purtroppo il film, volendo alludere troppo, si appiattisce e difetta di ritmo. Ma resta, per quanto irrisolto, una cupa e a suo modo indimenticabile incursione nell’affascinante mondo di Blackburn.

About Danilo Arona
Danilo Arona (Alessandria, 28 maggio 1950) è uno scrittore, giornalista e saggista italiano. Per anni si è occupato di narrativa fantasy e mistery, tenendo conferenze sulla letteratura fantastica e collaborando alla scrittura di sceneggiature. Ha scritto saggi sul cinema dell'orrore e su alcuni esponenti di punta di questo tipo di cinema, quali Wes Craven e Stephen King. Ha pubblicato, tra gli altri, con la Mondadori, Marco Tropea, Gargoyle Books, Corbaccio, Dario Flaccovio e Mezzotints.

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