Cinema Un tranquillo week end di paura

Un tranquillo week end di paura

Deliverance di John Boorman (1972) non è un film horror.

In genere non lo si trova nelle varie guide storiche del genere: Boorman e James Dickey (autore del libro omonimo che ne firmò anche la sceneggiatura) sono tuttora certi che la loro opera sia una specie di western moderno declinante la più classica delle tematiche americane, quella del viaggio.

Boorman, poi, trova così indigesto l’horror tradizionale dal rifiutarne l’etichetta per il suo sequel de L’esorcista (L’esorcista 2 – L’eretico) sul quale arriva faticosamente ad accettare la definizione di “thriller metafisico”. E allora? Perché ne parliamo su Horror.it? Semplice: perché gli “horrormaniaci”, tanto il pubblico che gli autori, se ne sono arbitrariamente impossessati (non da subito, ma con una metabolizzazione critica che è durata almeno un decennio), ravvisando in quel film le coordinate di un survivalism mitologico e orrorifico che ancora oggi impazza “dentro” il genere, regalandoci perle come i recenti The Descent e Wolf Creek. Di sicuro, se ci leggessero, Boorman e Dickey ci manderebbero a quel paese e il saperlo pone alla critica una serie di stimolanti problemi, sui quali non possiamo dilungarci. Possiamo però riassumerne qualcuno nella fatidica domanda senza risposta: di “chi” è questo film? In che misura appartiene al pubblico, al critico o all’autore? Quanto ne resta allo scrittore che ne ha fornito il plot con il suo romanzo? Fermiamoci qui e ripercorriamo il destino italiano del film, già indirizzato in una certa direzione da un titolo efficace quanto fuorviante: Un tranquillo week end di paura, che uscì vietato ai minori di 18 anni e con un’aura da film maledetto, zeppo di compiaciuta violenza. Nella nazione degli equivoci culturali Boorman andò subito a braccetto con il giustiziere Callaghan (doppio equivoco), ma per fortuna una generazione di attenti lettori di cinema seppe individuare così bene quel sottotesto mitologico, così rigurgitante di horror vacui, da doverlo inquadrare con un privilegiato riferimento al genere fantastico. Franco Ferrini, oggi scrittore e sceneggiatore con Dario Argento, ma negli anni Settanta critico di punta, propose un’interpretazione di Deliverance in chiave di “cripto-fantascienza”: i quattro amici lanciati verso il liberatorio week-end si presentavano come “americani in divisa”, proprio come gli astronauti che sbarcano su un pianeta sconosciuto, e di conseguenza quel mondo attorno al fiume Cahulawassee appariva alieno, mostruoso, ed erano alieni, mostri, i suoi squallidi abitanti i cui lineamenti al limite dell’umano suggerivano trascorse pratiche incestuose, così come alieni a loro stessi e all’America tutta sarebbero divenuti, “battezzati” da quella violenza primordiale che tutti ci portiamo dentro, i componenti della spedizione on the river.

Dalla cripto-fantascienza al cripto-horror non s’ha neppure da farsi un passo: il viaggio è notoriamente struttura portante del fantastico nelle sue varie diramazioni, dal fantasy al gotico. E gli anni Settanta, soprattutto al cinema, hanno aperto le porte ai viaggi psichedelici di Corman e di Fonda/Hopper (Easy Rider) e a quelli catastrofici all’interno di un’America sconosciuta abitata da mostri della modernità che hanno sostituito gli archetipi classici (i vari Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi e via declinando). All’inizio del survival travelling, che piaccia o meno, ci stanno proprio Boorman e Dickey. E poi Boorman ci ha messo (tanto) di suo per strappare il film a una delimitante lettura realistica: quei colori desaturati che prendono gradualmente possesso della fotografia, il mitico dueling banjoes in apertura tra Drew e il ragazzino dai caratteri mongoloidi, la tensione insostenibile che cresce dopo la prima – più che spiazzante – violenza carnale subita da Bobby, quella minacciosa mano armata di fucile che emerge dalle acque nella scena finale… Un orrore metafisico che ti entra dentro e non ti lascia più. E che da allora è entrato dentro l’horror canonico e non lo ha più lasciato. In film come L’ultima casa a sinistra di Wes Craven, quasi contemporaneo a quello di Boorman, Mother’s Day di Charles Kaufman (1980), Non violentate Jennifer di Meir Zarchi (1980, di recente uscito in DVD nella crudissima versione integrale), Just Before Dawn di Jeff Liebermann, nonché nei tanti remakes del “massacro con sega elettrica” di Tobe Hooper c’è il seme di Deliverance.

La trama di Un tranquillo week-end di paura è, in apparenza, molto semplice: quattro uomini in canoa (Ed, Lewis, Bobby e Drew) che risalgono il fiume Cahulawassee, tra rapide e cascate a strapiombo, in una zona destinata a essere ricoperta da un lago artificiale. Uomini “civili” che si scontrano con i degradati abitanti della zona, rimozioni di un inconscio collettivo la cui espressione vitale è la violenza di chi vive da sempre da emarginato. Dopo il primo “duello musicale”, carico di presagi, uno dei quattro viene aggredito e turpemente sodomizzato. Lewis (Burt Reynolds) uccide con l’arco uno degli aggressori, ma l’altro si trasforma per il quartetto in una sorta di malefico fantasma che diventa tutt’uno con la natura sempre più ostile. Gli incauti gitanti riusciranno a ucciderlo, ma l’esito complessivo del week-end sarà comuque tragico: Drew morto, Lewis con la gamba fracassata, Bobby traumatizzato a vita e Ed (Jon Voight) che difficilmente riuscirà ad addormentarsi ancora senza sentirsi annegare in quell’acqua mortale, elemento primario in grado di avvolgere tutto il film in un turbine sordido e fluttuante. Opera come poche altre seminale, Deliverance influenza nel profondo autori come Francis Ford Coppola e Walter Hill, i cui Apocalypse Now e I guerrieri della palude silenziosa risultano debitori a Boorman di ben più di un’analoga idea di film. Ma, come abbiamo già accennato, è un po’ tutto il survivalism che si deve ancora oggi inchinare a Un tranquillo week end di paura: la prima parte del recente, ottimo, Wolf Creek dell’australiano Greg McLean, tutta giocata “in levare” sino alla comparsa del serial killer, si misura con una desertica natura, surreale e metafisica, assolutamente “aliena” all’umanità (è persino zona prediletta da UFO e meteoriti!), e trattasi dello stesso registro tematico e stilistico adottato da Boorman e Dickey nei confronti delle minacciose montagne che circondano il Cahulawassee. Era il lontano ’72, mai così vicino…

Prima di Deliverance, Boorman non navigava in acque tranquille. Proveniva da un notevole fiasco commerciale (Leone l’ultimo) e tentava invano di far partire il suo progetto di Lord of the Rings, quel Signore degli Anelli che troverà decenni dopo la sua compiuta e definitiva realizzazione cinematografica con Peter Jackson. Fu la Warner Bros a proporgli il film tratto dal libro di James Dickey, ma Boorman non lo sentiva granché nelle sue corde: se lo scrittore si arrendeva di fronte all’evidenza che violenza e orrore erano prove iniziatiche per far emergere la virilità americana, il regista le detestava e le considerava pura barbarie. Le divergenze non vennero mai superate, ma i due trovarono un accordo funzionale attraverso una fitta e cordiale corrispondenza che portò alla sceneggiatura, in seguito accreditata al solo Dickey. Per essere prodotto da una major, Deliverance fu girato in assoluta economia, al punto tale che, nonostante gli oggettivi rischi di lavorazione, non si riuscirono a stipulare le obbligatorie assicurazioni su eventuali infortuni che potessero capitare ai membri del cast e non si scritturò alcuna comparsa: così gli attori si dovettero realmente misurare con tutta una serie di prodezze fisiche, come superare in canoa delle insidiose rapide o scalare, come fece Burt Reynolds, una scivolosissima scogliera per riuscire a eliminare il diabolico inseguitore del quartetto. Le riprese si effettuarono sul fiume Chattooga, ai confini tra il Sud Carolina e la Georgia e, al posto delle comparse professionali, si scritturarono alcuni abitanti del luogo che impersonarono praticamente sé stessi. Lo stesso Dickey, autore del libro e dello script, tappò un buco impersonando un personaggio nemmeno marginale come lo sceriffo Bullard e il figlio del regista, Charlie Boorman, si cimentò nei panni del figlioletto di Ed. Il bambino dell’elettrizzante duetto strumentale (banjo contro chitarra) che “lancia” la vicenda, Billy Redden, era veramente un ragazzino handicappato e del tutto incapace di suonare il banjo, né tantomeno in grado di simulare a livello mimico la tecnica operativa necessaria per dare l’opportuna verosimiglianza alla scena (indispensabile, dati gli incredibili virtuosismi che l’orecchio percepiva dalla colonna sonora): Boorman risolse il problema con una soluzione di altissimo artigianato, degna dei pionieri italiani della “pizza & fichi”, ovvero nascose un vero musicista dietro la sedia di Billy che guidava, non ripreso, la mano del ragazzino in modo da riprodurre il giusto movimento delle mani.

Il film faceva opportuna gola al grande Sam Peckinpah, reduce dal grande e inatteso successo commerciale di Cane di paglia, altro drammaticissimo apologo sulla violenza americana (e universale) la cui cifra stava attraversando in quegli anni un po’ tutto il cinema mondiale, soprattutto fuori dai generi canonici (dall’Arancia meccanica di Stanley Kubrick ai vari “giustizieri della notte”, lanciati dal duo Michael Winner/ Charles Bronson). Nelle sue mani la “violenza contenuta” di Boorman si sarebbe probabilmente trasformata in un epico ed estetizzante balletto di morte con molta più emoglobina esibita, però per la legge mai smentita dell’allusione (meno vedi, più la scena è disturbante, e ne fa fede la sequenza della sodomizzazione di Bobby) lo stile di Boorman, in bilico sempre tra l’onirismo e un realismo “manipolato”, risulta di straordinaria efficacia proprio perché non esplicitata in chiave documentaristica, alla Wes Craven de L’ultima casa a sinistra per capirci. Boorman, all’inizio, avrebbe voluto Lee Marvin e Marlon Brando a recitare nei ruoli di Ed e Lewis, ma ambedue rifiutarono cordialmente l’offerta perché si sentivano troppo vecchi e acciaccati per adattarsi a quel tour de force che non comprendeva controfigure. Come spesso capita in seguito ai film di grande e coinvolgente intensità (pensate alla “roulette russa” de Il cacciatore di Michael Cimino…), Deliverance lanciò la moda dello sport estremo proprio nelle modalità viste nel film e proprio sul fiume Chattooga: in poche parole, decine di persone provarono a cimentarsi nella discesa del corso d’acqua con tanto di canoa e gadget survival come quelli usati da Burt Reynolds. Il risultato, piuttosto tragico e a suo modo significativo, fu di 31 morti annegati nei primi sei mesi di programmazione del film. Poi le autorità intervengono giuridicamente a porre un freno a quella specie di suicidio collettivo.

Un tranquillo week-end di paura

Regia: John Boorman
Interpreti: Jon Voight, Ned Beatty, Burt Reynolds, Ronny Cox, Bill McKinney.
Titolo originale: Deliverance
Drammatico
Durata 109 min. – USA 1972

About Danilo Arona
Danilo Arona (Alessandria, 28 maggio 1950) è uno scrittore, giornalista e saggista italiano. Per anni si è occupato di narrativa fantasy e mistery, tenendo conferenze sulla letteratura fantastica e collaborando alla scrittura di sceneggiature. Ha scritto saggi sul cinema dell'orrore e su alcuni esponenti di punta di questo tipo di cinema, quali Wes Craven e Stephen King. Ha pubblicato, tra gli altri, con la Mondadori, Marco Tropea, Gargoyle Books, Corbaccio, Dario Flaccovio e Mezzotints.

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