Category: Recensione film

Il termine chiave per dare l’esatta misura di District 9 potrebbe appunto essere organicità.

Nel 1982, un’astronave aliena in avaria si ritrova a stazionare immobile nei cieli sopra Johannesburg, Sud Africa. Al suo interno, un milione di creature aliene praticamente in fin di vita, debilitate dal viaggio, dalla fame, dalle malattie. Al suo esterno, un’umanità che salva loro la vita, collocandoli in un’apposita area di detenzione cittadina chiamata District 9. E questo non è che l’inizio.

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Siamo nelle parti di un Silenzio degli innocenti della serie z, di un Seven girato con i soldi da Tanio Boccia.

Un criminologo dopo un tragico errore che è costato la morte alle vittime di un serial killer, si ritira in un ospedale di provincia ad assistere persone traumatizzate da eventi catastrofici. Qui incontra Matt, un giovane ricoverato in seguito a un incidente d’ auto. Le visioni di Matt sembrano avere un legame strettissimo con un Serial Killer chiamato “Ragno”.

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Remake prodotto dalla Summit Entertainment del film The House on Sorority Row (pellicola del 1983 che in Italia arrivò con l’improbabile titolo di Non entrate in quel Collegio).

Sorority Row è un horror statunitense che si nutre avidamente dei più scontati cliché del genere, facendo più o meno apertamente l’occhiolino all’ormai non più recentissimo So cosa hai fatto (1997).

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E’ dai tempi di The Gift (2000) che Sam Raimi non metteva praticamente mano a qualcosa che puzzasse vagamente di horror.

Nell’anno di Nostro Signore 2009, l’antichissima e rispettabile pratica della maledizione rituale non solo è viva e vegeta, ma ha trovato tra le pieghe più contraddittorie e significative della nostra società terreno fertile come non mai. Basta con questioni d’altri tempi, amori non corrisposti e vendette d’onore: perchè perder tempo con contese di epoche passate, quando si hanno a disposizione banche, prestiti capestro, mutui implacabili e sfrenato carrierismo?

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In questo senso Il Messaggero è una pellicola a rischio zero, intrattenimento horror confortante nei suoi confini ben definiti, con un minimo di ritorno economico garantito.

1987: la famiglia Campbell si è appena trasferita in un grande villa vittoriana nel Connecticut per agevolare le cure del giovane Matt, malato di cancro. Ma quello che ad una prima, frettolosa valutazione si prospettava come un buon affare immobiliare, nasconde un passato inquietante e oscuro, l’indelebile impronta lasciata tra quelle pareti da pericolosi e macabri esperimenti con il regno degli spiriti effettuati dall’allora titolare delle locali pompe funebri tramite le capacità medianiche del giovane figlio Jonah.

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L’Aidan Breslin dell’ex star Dennis Quaid è un abbastanza credibile rimasuglio di noir d’epoca bolso e scarmigliato che parte benino, avvolto nella sospesa e paralizzante bruma nivea della cittadina di Winnipeg.

Aidan Breslin (Dennis Quaid) è un agente di polizia precocemente ingrigito a cui sarebbero sufficienti i problemi d’incomunicabilità con i due figli Alex e Sean e l’ancora fresco trauma della scomparsa della moglie per avere di che nutrire le proprie nevrosi. A dare il definitivo colpo di grazia al suo già fragile equilibrio psichico, il coinvolgimento in un’indagine su una serie di misteriosi e raccapriccianti omicidi seriali che lo vede coinvolto in primissima fila.

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Noioso, mai appassionante, paga anche una certa castrazione sul piano del gore dove i banchetti degli zombi sono fuori campo.

Sarah (Skye Bennet) è una ragazzina autistica sotto le amorevoli cure del padre Ben (Noah Huntley). Preso l’ascensore dell’ospedale insieme ad altre tre persone, inspiegabilmente si ritroveranno da soli, all’interno dello stesso ospedale dove il tempo si è fermato, contro cinque terribili mostri che daranno la caccia proprio alla piccola Sarah…

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Il mio umile consiglio: evitate pure Laid to rest.

Una ragazza si risveglia ferita senza memoria in una bara. Scoprirà presto che è stata rapita da un serial killer che l’ha portata in un’isolata cittadina rurale dove dovrà sopravvivere, insieme ad altre persone, ai suoi perversi giochi di morte. Nessun luogo sarà troppo nascosto per scappare e gli omicidi cominceranno a tingere la via dell fuga di rosso sangue. Sotto l’occhio di una telecamera il killer cercherà di avere il suo tributo di morte.

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Tacciamo sugli attori poi da soap opera o sul pessimo finale moralista che accende un’idea abbastanza misogina di regno femminile.

Nell’accingermi a vedere Butterfly effect 3 ero armato delle migliori aspettative: fonti sicure mi parlavano di un buon horror alla Saw dopo il fantascientifico del primo e l’imbarazzante pasticcio temporale del secondo. Naturalmente Butterfly effect 3(o Revelations come preferite) non è nulla di questo: è un pasticcio horror con pretese sadiche che annoia spesso, risulta confusionario e mai interessante. 

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Nato come semplice cortometraggio, nel corso dei suoi quattro anni di tribolata gestazione è stato diluito, più che trasformato, lungo novanta minuti di pellicola.

Grockleton è il classico locus amoenus di tradizione classica, immerso in una pace quasi innaturale e dominato da un’imponente collina sulla cui sommità svetta imperioso il Beesley’s Manor, dimora dell’omonimo signore del luogo e dei suoi bizzarri famigliari.

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