Cinema Djinn

Djinn

djinn2L’ennesima delusione di Tobe Hooper

Quanto è facile stabilire l’importanza di un film nell’ottica della carriera di un regista? Quasi ogni cineasta ha un titolo o due nella sua carriera che spicca sugli altri, che tiene le redini della sua filmografia e che, spesso, può fungere da porta d’ingresso per scoprire ed entrare nel suo immaginario. Tutto, principalmente, dipende dal target che si sceglie di analizzare. Nel caso di Craven, ad esempio, si potrebbe dire che i giovani lo associano perlopiù alla saga di Scream; per chi ha qualche anno in più è il regista di Nightmare. Per un cinefilo la sua pellicola meglio riuscita potrebbe essere L’ultima casa a sinistra, quando per un cultore la scelta potrebbe ricadere, spinto dal desiderio di rivalutazione e da uno studio approfondito su temi e idee, su un La casa nera. Poi c’è un discorso ulteriore, che esula dal solo tipo di spettatore, riguardante: paese, realtà e periodo storico che si sceglie di prendere in esame. Quanto influisce, o dovrebbe influire, l’effettiva riuscita del film sulla scelta? Una pellicola “invisibile”, che però incorpora in sé le tematiche principali di un autore, va presa in considerazione?  Talvolta, però, la scelta è semplice, perché dettata dalla mancanza di alternative, vale a dire dalla mancanza di prolificità. Un esempio su tutti: Robin Hardy con il suo The wicker man. Insomma, la questione è complessa quando si tratta di dover estrapolare un titolo dal lavoro di un regista; gli elementi da considerare sono molteplici. Il caso di Tobe Hooper, però, è tutto speciale.

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Quasi chiunque sceglierebbe a mani basse Non aprite quella porta (1974). In effetti sarebbe impossibile rispondere diversamente. Il suo debutto nel lungometraggio ha rimodellato il cinema, non solo quello horror, e vanta, aldilà dei sequel e remake ufficiali, un numero di imitazioni pressoché impossibile da elencare. Ha sfidato la censura, dato alla luce un icona immortale (Leatherface), ispirato un’intera generazione di film-maker e creato un immaginario multi-stratificato dalla riconoscibilità immediata. La scelta è quella. Punto. Quindi, dove nasce l’anomalia? In tutto quello che viene dopo. Hooper è forse il più odiato tra i registi attivi nel genere. Una specie di barzelletta. Poltergeist? Ormai è talmente forte l’opinione comune che non sia stato lui a dirigerlo, bensì il produttore/sceneggiatore Spielberg, che è diventato un fatto agli occhi di molti. Quando la verità, e basterebbe poco per rendersene conto, è un’altra. Tanto è l’astio

nei confronti dell’autore texano che, recentemente, è nato il trend di tentare di sminuire o, comunque, ridimensionare il suo film più famoso. Non è fuori dal comune leggere, anche da firme prestigiose, che Non aprite quella porta è stato un unicum, un errore uscito bene, un colpo di fortuna. Questo porta ad un’altra anomalia: Hooper, nonostante l’oggettiva fama, non è mai stato storicizzato. Nessuno, o quasi, ha mai cercato di fare un discorso sulla sua poetica, di identificare fili rossi, insomma, di comprenderlo. In Italia, dove siamo inondati di monografie e libretti, si conta solo un libro su di lui (Il cinema di Tobe HooperFabio Zanello-Falsopiano).

Quel motel vicino alla palude (1977), Il tunnel dell’orrore (1981), Space Vampires (1985), Non aprite quella porta 2(1986), Invaders ( 1986-il più dimenticabile del lotto) sono, dai più, etichettati come brutti. Stop. Nel migliore dei casi poco riusciti. Eppure, Il tunnel dell’orrore è uno dei pochi film che dimostra, in tempi non sospetti, di capire profondamente le origini e le pieghe che stava prendendo lo slasher. Non aprite quella porta 2 è una pellicola incredibilmente politica che satirizza sull’era reganiana come pochi all’epoca. Una comprensione per il diverso, un amore per il mostro che è, quasi sempre, in primis, vittima della società, una visione dell’horror da opera lirica, il gusto per le simbologie oniriche. Gli elementi da analizzare nella cinematografia di Hooper sarebbero molteplici.

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Certo, i passi falsi sono stati molti, forse troppi, ma se ci sono titoli imperdonabili (Le notti proibite del Marchese De Sade, Crocodile), anche tra questi film la reazione da parte di pubblico e critica è stata senza mezzi termini. Eppure, in The mangler-la macchina infernale (1995), cosi come in I figli del fuoco (1993) per quanto, sì, brutti, qualcosa c’era da salvare. La verità è che Hooper è fottuto a prescindere; anche quando segna il tabellone non fa risultare il suo punto. La casa dei massacri (2004) era tutt’altro che disprezzabile, una fetta di puro sleaze anni settanta molto ben strutturato. Niente. Quanti sanno che dietro il bel pilota della mini-serie Taken c’è la sua firma? Pochi. Certo, nel mezzo c’è il tremendo Mortuary – il custode, ma Hooper, come un adolescente dark e troppo sensibile, come un outsider incompreso, dopo ogni pellicola riuscita pare deprimersi regalandoci qualche frustrante nefandezza, spesso resa ancor più frustrante dalla sensazione che in lui si celi, nonostante tutto, ancora un barlume di genialità. Purtroppo con Djinn le notizie non sono delle più rosee.

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Nell’ormai lontano 2010 viene annunciato l’intento di realizzare un horror negli Emirati Arabi Uniti, usando ambedue le lingue, e di girarlo interamente a Ras al-Khaimah. Senza nulla rivelare della storia, l’incipit vede una giovane coppietta araba tornare dagli States per prendere casa in un lussuosissimo grattacielo nella sopracitata città araba. L’enorme struttura specchiata è stata, però, costruita
su un antico villaggio di pescatori abbandonato e maledetto. Non ci vorrà molto prima che il senso di sicurezza e l’eccitazione della coppia vengano minati da strani vicini, presenze oscure e demoniaci presagi. La piccola comunità cinematografica locale accoglie il progetto con entusiasmo, come l’occasione di mostrare, sul piano internazionale, la propria fiorente industria. Ma, nei tre anni a seguire, la produzione di Djinn avrà più colpi di scena di un’intera stagione di Sentieri. Se i rapporti tumultuosi tra Hooper e Golan e Globus della Cannon ancora fanno parlare di loro, qui si toccano vette ancor più grottesche.

Andiamo con ordine:

Febbraio 2011: Inizia ufficialmente la pre-produzione. A condurre le danze è la Imagenation Abu Dabi (più in là divenuta Image Nation). La sceneggiatura è a firma del quasi esordiente David Tully, che ebbe l’idea proprio durante una vacanza in quella zona. Hooper dichiara di essere affascinato dal soggetto perché il misticismo medio-orientale e, in particolare, i djinn (sorta di geni presenti nella religione preislamica e in quella musulmana, una specie di entità intermedia fra il mondo angelico e quello umano, che ha per lo più un carattere maligno) non sono mai stati trattati nella cinematografia occidentale. A bordo c’è anche la produttrice (una delle prime donne, degli Emirati a ricoprire questo ruolo), Nayla Al Khaja, nelle vesti di consulente culturale.

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Marzo 2011: Si inizia a girare. Con un budget di circa cinque milioni di dollari e location sparse in tutti gli Emirati Arabi. I problemi non tardano ad arrivare. I locali guardano con sospetto la faccenda, non apprezzando che degli stranieri si approprino delle leggende e delle iconografie della loro cultura. Alla troupe viene ordinato di non usare mai il termine “genio” o “djinn”. Verso la fine del mese la Khaja lascia il set
lamentando “l’assenza di emirati tra le persone con potere decisionale” e dichiarando di sentirsi lontana dagli intenti del film. Seguirà, a distanza di pochi giorni, uno sciopero della parte araba della troupe. Improvvisamente, alcune location non sono più disponibili e la macchina inizia a rallentarsi.

Dicembre 2011: La Fortissimo film, che aveva acquistato i diritti per le vendite estere, già all’inizio dell’anno fa un test screening a Londra per circa trecento spettatori. Si cerca di organizzare una proiezione, con tanto di red carpet, al Dubai International Film Festival, ma, per ragioni poco chiare, l’evento non si tiene. Viene annunciata l’uscita nelle sale all’inizio del 2012, poi a metà dello stesso anno, poi niente.

Dicembre 2012: Il Guardian pubblica un articolo in cui si cerca di capire le ragioni di questo ritardo. La motivazione primaria sembra essere che uno o più membri della famiglia reale degli Emirati Arabi non gradisca il risultato e, soprattutto, gli scopi del film, che ritiene “politicamente sovversivo”.  Secondo quanto si può leggere sul quotidiano, la famiglia reale avrebbe chiesto continui cambiamenti strutturali e narrativi durante la lavorazione del film. Ricordiamo che il paranormale, in quasi tutte le sue forme, è un argomento tabu nei paesi medio-orientali. Un portavoce della famiglia nega. Nel frattempo, sistematicamente, tutte le case di distribuzione che si mostrano interessate all’acquisto vengono mandate a casa. Tutt’ora la questione sembra poco chiara. Ognuno punta il dito sull’altro. Il CEO della Image Nation mette in mezzo la Director’s Guild of America, che, secondo lui, avrebbe, per questioni contrattuali e sindacali, rallentato il processo di vendita.

Tutto si sblocca alla 63ma edizione del Festival di Berlino dove Djinn inizia ad essere venduto, per poi continuare al Festival di Cannes dello stesso anno, 2013. Tutto, quindi, ritorna a procedere normalmente.

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Il problema, però, quello vero è che dietro tutto questa contorta disavventura produttiva non si nasconde un gioiellino pronto per essere scoperto. Djinn è forse la punta più bassa nella carriera di Hooper. La fotografia patinata e lucidissima sembra quella di una soap opera e la recitazione (il membro del cast più famoso è Khalid Laith di The devil’s double) segue questo trend.
Gli effetti speciali sono decorosi, come lo possono essere quelli di una qualsiasi puntata di Masters of horror. Il problema più grande è nella sceneggiatura. Djinn si svolge in una terra straniera, in un luogo misterioso, poco conosciuto dai più, e tocca, o perlomeno sfiora, elementi lontani e piuttosto oscuri alla nostra cultura. Il film è senza luogo, potremmo trovarci in qualsiasi psuedo-metropoli americana. Neanche la musica riesce ad evocare le suggestioni geografiche – che pure dovrebbe essere centrale in un progetto di questo tipo. Quindi, dov’è la terra di Aladino e delle mille e una notte? Non c’è. E cosa ancor più avvilente è che neanche Hooper c’è. Qualche zampata sì, ma soffocata da strati opprimenti di un nulla para-televisivo. Tutti i luoghi comuni della formula “coppia, claustrofobica e in preda alla paranoia, circondata da vicini tenebrosi e demoni oscuri” sono presenti. Non a caso, la presenza, pesante come un macigno, di Rosemary’s baby (1968) pervade ogni angolo di celluloide, così come quella di Omen-il presagio (1977), e dello stesso Poltergeist.

Djinn rappresenta un altro chiodo sulla bara artistica di Hooper. Questa – Tobe – non te la perdoneranno e, molto probabilmente, dall’angolo in cui ti sei andato a infilare non ne uscirai più. Ma, se a chi scrive è concesso del pietismo e un filo di miele: forse se non avessimo continuato a paragonare questo vecchio texano ai suoi colleghi, se non avessimo preteso da lui di essere un Carpenter o un Craven, se, invece, avessimo cercato di comprendere di più alcuni dei suoi film, che qualcosa da dire ce l’avevano, forse, e solo forse, non saremmo arrivati a questo punto, non saremmo arrivati a Djinn.

Djiin - VOTO: 1/5

Anno: 2013 - Nazione: Emirati Arabi - Durata: 90 min.
Regia di: Tobe Hooper
Scritto da: David Tully
Cast: Aiysha Hart - Razane Jammal - Ahd - Khalid Laith - Kristina Coker
Uscita in Italia: - Disponibile in DVD:

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