Autori Ruggero Deodato: “Sono un cannibale cinematografico”

Ruggero Deodato: “Sono un cannibale cinematografico”

Tutto Ruggero Deodato in una lunga intervista esclusiva.

Il padre del genere cannibal, vero fenomeno di culto negli Stati Uniti, ma anche sagace interprete della grande stagione dei generi italiani si confessa a cuore (è proprio il caso di dirlo!) aperto…

Domanda di rito: parlando della tua carriera e dei tuoi inizi quali sono stati i momenti salienti e i passaggi chiave?

Il mio primo inizio è stato con Roberto Rossellini. È stata una cosa casuale perché lui era un amico di famiglia, dato che abitavamo nello stesso stabile. Cominciai come volontario nel film IL GENERALE DELLA ROVERE e poi come effettivo nella pellicola IN UNA NOTTE A ROMA. Poi da lì ne ho fatti altri sei o sette con lui. È stato un esordio davvero straordinario perché io ero ancora giovanissimo e non avevo ancora l’aspirazione di fare il regista.

In realtà i miei inizi sono segnati dalla volontà di fare l’attore e le prime esperienze furono proprio in quel campo, la recitazione. Ovviamente ruoli secondari, con registi che conoscevo e frequentavano i Parioli, il mio quartiere romano. Non avevo mai visto oltre la macchina da presa, invece con Rossellini ho cominciato a innamorarmi di ciò che accadeva dall’altra parte della mdp ed è stata una cosa davvero memorabile.

Mi ricordo che dopo il primo film come effettivo ascoltavo i vari componenti della troupe dire <<ora vado a fare un film con Visconti>> oppure <<io invece ne giro uno con Castellani>>. Io mi misi a piangere in un angolo perché per me era il primo film e non sapevo se avrei proseguito oppure avrei dovuto lasciar perdere e prendere altre strade. Mi diede coraggio la mia compagna dell’epoca, facendomi ritrovare fiducia in me stesso e così proseguii.

Quindi una formazione sostanzialmente tutta costruita dai set di questi grandi registi. Cosa “rubavi” da ciascuno di loro? Quali erano i segreti, le tecniche, le idee che carpivi dal loro modo di fare cinema?

Beh Rossellini è stato il mio primo maestro e di lui mi prendevo tutto. Era un personaggio carismatico e riusciva ad affascinare tutti i membri di una troupe. Io stavo delle ore intere ad ascoltarlo. Lui aveva una predilezione per me, anche nei confronti del figlio dato che preferiva quasi dialogare con me piuttosto che con il figlio. Mi chiamava “Ruggerino” e mi presentava a tutti come uno sveglio, disponibile, preparato. Mi voleva davvero bene e da lui ho catturato tutto quello che si può catturare dal suo stile neorealista. Rossellini non era un grande tecnico e nemmeno si gloriava di esserlo. Lui era un istintivo, un creativo puro. E questa peculiarità io credo l’ho assorbita sicuramente.

Altri maestri?

Dopo Rossellini ho appreso molto da Carlo Ludovico Bragaglia, un regista di formazione che i critici di allora definivano di serie B, molto commerciale e che aveva girato un centinaio di film. Lui mi ha insegnato il cinema dalla A alla Z nel senso che frequentando i suoi set ho carpito segreti e trucchi legati agli aspetti tecnici, ugualmente fondamentali per la riuscita di un film.

Rossellini non ti insegnava la tecnica, perché era uno che girava delle lunghe sequenze, catturando le immagini. Non aveva la tecnica specifica per girare un film commerciale. Invece Bragaglia mi insegnò tutto, malizie comprese. Ad esempio mi insegnò come riuscire a rendere sullo schermo l’immagine di una carovana di duecento camion di soldati avendone a disposizione solo tre: facendo girare sempre gli stessi tre mezzi attorno a un palazzo riprendendoli da due punti di vista differenti! (ride).

Bragaglia fu il primo che mi fece girare una sequenza intera. E di questo gli sarò sempre infinitamente grato perché ebbe fiducia nelle mie capacità.

Un altro grande che ricordo con piacere è Sergio Corbucci, un regista che mi piace definire con la “R” maiuscola, con il quale ho fatto il salto nel genere comico, passando in un cinema contraddistinto da una tecnica ancora più spettacolare. Anche se era uno che a volte arrivava tardi sul set (ride), Corbucci aveva però una grinta, una immediatezza e una risolutezza tali da lasciare stupefatti. Era molto piacevole girare con lui perché era una persona molto ironica, che sapeva divertirsi e far divertire i suoi collaboratori durante la lavorazione di un film. Questo era importante perché quando lavoravamo 24h su 24 se non si fosse sdrammatizzato un po’ non credo avremmo retto ritmi di lavoro così faticosi. Con lui ho fatto i viaggi più belli: Spagna, Egitto, Africa, dappertutto. Corbucci era una persona intelligente che sapeva fidarsi dei suoi collaboratori, era uno che ti dava spazio, che ascoltava i consigli, nella scelta degli attori, negli aggiustamenti vari.

Passando al genere che più ci aggrada come è stato lavorare con grandissimi come Margheriti e Freda?

Margheriti è stato un regista che apprezzava il mio lavoro, in modo genuino. Mi rispettava molto. Anche perché sapeva dei mie trascorsi con Rossellini, Bolognini ecc. ecc. Addirittura a volte mi metteva in imbarazzo perché sembrava quasi preoccupato, la mattina, di comunicarmi che aveva sistemato sul set tutte le cose a dovere, quasi tenesse in maniera esagerata al mio giudizio. Persona adorabile, anche fuori dal set, di una grande umanità. Tecnicamente un fenomeno, mi piaceva molto come padroneggiava l’uso della mdp, forse meno come dirigeva gli attori: lasciava loro troppa libertà di “movimento” e questo va bene se hai a che fare con dei fenomeni ma non sempre era così… Diciamo che la recitazione era un aspetto che Margheriti trascurava un pochino. Comunque aveva una grande comunicabilità con tutti quanti.

Riccardo Freda per me era un genio vero. Perché era uno degli uomini più colti che io abbia mai conosciuto. È stato insignito, tra l’altro, anche della Croce D’Oro dell’Accademie De Francaise. Un cervello dinamico, geniale, innovatore, anche un po’ pazzo e spregiudicato perché quando girava era difficile stargli dietro. Era un treno, che non si arrestava davanti a nulla e risolveva qualunque problema sul set con delle intuizione incredibili. Con lui ho girato due film in uno: GENOVEFFA DI BRAMANTE e GIULIETTA E ROMEO. Lui girava contemporaneamente!

Nella stessa inquadratura lui riusciva a girare due film, cambiando i costumi, modificando leggermente la scenografia… Era pazzesco! E il tutto senza perdere mai il filo logico di quello che stava facendo!

Tieni conto che questa era una prassi non molto usuale, dovuta principalmente alla esiguità dei budget produttivi. I film di Freda, un Freda che io ho conosciuto nella fase finale della sua carriera, erano ovviamente a basso costo, alcuni se li produceva addirittura lui personalmente e quindi si risolvevano questi problemi di budget girando due film in uno. D’altronde con la sua grande tecnica se lo poteva permettere, non so quanti altri ci riuscirebbero. Era un burbero geniale: faceva tutto da solo, sceneggiature, montaggio.

Parliamo di uno dei tuoi primi film importanti: URSUS IL TERRORE DEI KIRGHISI, un peplum con venature horror accreditato a Margheriti ma nel quale sappiamo tu hai giocato un ruolo decisivo. Che puoi dirci al riguardo?

Dopo due settimane di lavorazione, in cui io facevo il suo aiuto regista, all’improvviso Margheriti mi disse che doveva lasciare il set a causa di un impegno con un altro produttore. Mi chiese dunque se me la sentivo di assumermi la responsabilità della direzione del film. Io risposi di si e così mi trovai a soli 25 anni a dirigere da solo. Alla fine il film lo firmò Antonio (lui era già un nome di peso all’epoca mentre io ero ancora nessuno) e io presi la paga da aiuto-regista mica quella da regista! (ride).

Ma la cosa che più mi importava era l’esperienza acquisita in quelle 5 settimane di lavorazione, una esperienza non facile perché ho avuto contro anche alcuni membri della troupe, forse poco propensi a prendere ordini da un ragazzino così giovane. Invece fu bello il rapporto con il produttore Ettore Manni e con l’attore protagonista. In merito al risultato che ti posso dire? Oggi me lo ricordo poco, perché è un film che vidi solo in fase di montaggio. Non andai mai nemmeno a vederlo al cinema. Anche perché in fondo non lo sentivo come un film totalmente mio.

Nel 1968 giri GUNGALA LA PANTERA NUDA. Che film era?

GUNGALA è un film che ho firmato con uno pseudonimo straniero. Io ero ancora aiuto-regista ma cominciavo a essere stufo di quel ruolo, avevo voglia di fare il salto di qualità definitivo e accreditarmi come regista. Mi chiamò un direttore della produzione e mi disse che stava girando un film con un regista che non lo soddisfaceva pienamente. Mi disse che aveva bisogno del mio aiuto per girare una scena, quella delle sabbie mobili, che il regista titolare non era in grado di fare. Io accettai, girai la scena, molto bene devo dire e la sera il direttore della produzione mi pagò lautamente con mi grande soddisfazione.

La notte stessa il direttore mi richiamò e mi disse se potevo tornare sul set anche l’indomani mattina perché era piaciuto a tutti il mio modo di lavorare e avevano bisogno ancora del mio supporto. Ovviamente accettai di nuovo e le mie capacità alla fine convinsero il produttore a chiedere a me di continuare il film. E così fu. Diedi anche una occhiata al girato precedente e assieme alla montatrice, una donna in gamba che aveva già lavorato con De Sica, concordammo che era materiale davvero pessimo, quasi inutilizzabile.

Per rimediare chiesi dunque di cambiare alcune cose: Angelo Infanti che faceva il “cattivo” lo feci diventare “il buono” e chiesi di poter girare alcune scene in Kenya. Il produttore fu d’accordo e così facemmo. Fu il primo film che firmai io e quindi lo ricordo con particolare piacere. Un discreto adventure-movie con qualche spruzzatina di fantasy e un paio di sequenze splatter non di poco conto.

Dopodichè ti spostasti su soggetti di altro genere tipo FENOMENAL E IL TESORO DI TUTANKAMEN. Un film che si inserisce in un periodo in cui era consuetudine trattare soggetti riguardanti personaggi di fumetti: penso ai KRIMINAL di Lenzi e di Cerchio, il SATANIK di Vivarelli, il sublime DIABOLIK di Mario Bava… Possiamo dire che il cinecomix di oggi, il genere rappresentato dai vari SPIDERMAN, HULK, XMEN, HELLBOY di oggi sia un po’ figlio vostro, di quel peculiare sottofilone di cinema?

Non saprei dirti se a noi possa essere arrogato il merito di aver inaugurato un filone come il cinecomix, anche perché i personaggi dei fumetti che tu hai citato esistevano già al tempo in cui noi giravamo i nostri film. Sicuramente posso dire che noi per primi intuimmo le potenzialità del portare sullo schermo i cosiddetti “eroi di carta”. Ed essendo italiani ci concentrammo ovviamente sui fumetti nostrani. Anche se FENOMENAL, a dire il vero, ha una genesi un po’ diversa: nasce infatti come tentativo di dare un seguito alla scia dei film di James Bond, un sottogenere che andava di moda in quel periodo grazie ai film dell’agente 007!

Il produttore aveva tentato anche prima di FENOMENAL, con un film chiamato OPERAZIONE ISTANBUL, di sfruttare l’onda lunga del successo degli spy-movies alla 007. Ne uscì una soluzione ibrida a metà tra la spy-story e il cinecomix appunto. Comunque una pellicola che ebbe il suo discreto successo commerciale e ha per questo avuto il merito di stimolare i produttori a investire nel genere con i vari DIABOLIK, KRIMINAL ecc.ecc.

Comunque per il sottoscritto è un film importante a prescindere perché è stato il mio primo film ufficiale intero, perché non sono subentrato a nessuno e la direzione mi fu affidata dall’inizio delle riprese! (ride). Ricordo che andai a girare una scena a Parigi, durante i festeggiamenti per la presa della Bastiglia. Immagina tu il casino che c’era sugli Champs Elysees: la folla, le forze dell’ordine che vigilavano sulla parata di De Gaulle, il traffico… un caos! Io giravo e stavo facendo delle panoramiche sulla folla e improvvisamente mi soffermai sul volto di una persona che mi ricordava un volto noto. Non appena realizzai che avevo filmato Rex Harrison, famoso attore inglese, andai da lui a chiedere se potevo utilizzare quelle riprese nel film e lui mi disse che non c’erano problemi. E quindi nel mio primo film da regista ho avuto la fortuna di avere un cameo di una star del genere! (ride).

Nel 1969 esce I QUATTRO DEL PATER NOSTER, film poco conosciuto della tua filmografia…

E’ un film che ha lanciato quattro attori comici che poi ebbero un successo incredibile: a parte Montesano, che aveva già fatto qualche cosa, per Paolo Villaggio, Lino Toffolo e Oreste Lionello era la prima esperienza assoluta su di un set cinematografico. L’operazione voleva essere ovviamente quella di parodiare il genere western, nello specifico il film I QUATTRO DELL’AVE MARIA. Non ha avuto molta fortuna. Ebbe problemi all’uscita nelle sale perché noi lo stampammo con la collaborazione dell’Istituto Luce che proprio in quel periodo fu oggetto di uno sciopero durato tre mesi. Il ritardo ci costrinse a uscire in un periodo sbagliato e questo non giovò all’esito commerciale della pellicola. La soddisfazione personale è quella di aver visto giusto nella scelta dei protagonisti, che in seguito divennero vere star.

Passiamo oltre. UOMINI SI NASCE POLIZIOTTI SI MUORE è una grande incursione nel poliziottesco italiano, in un periodo in cui questo genere, così ricco di qualità, stava un po’ tramontando. Oltretutto è un film che si segnala per la commistione con alcune sequenze delittuose di una efferatezza più vicina all’horror che non al poliziesco. Ti è piaciuto il risultato finale?

Indubbiamente! E’ uno dei miei film preferiti e so per certo che piace anche a molti addetti ai lavori: Quentin Tarantino, durante un nostro recente incontro a Venezia, mi ha confessato di conoscerlo a memoria. Da non credere! Pensavo di essere famoso solo per CANNIBAL HOLOCAUST e invece Tarantino mi confessa il suo amore per UOMINI SI NASCE… e LA CASA SPERDUTA NEL PARCO! UOMINI SI NASCE… è comunque un film eccezionale, che rivela un po’ la mia impronta cinematografica all’americana. Un film dove riesco ad abbinare un certo tono scanzonato nel narrare vicende turpi senza però perdere di un millesimo nella drammaticità della storia e dei personaggi. Peccato che non se ne sia fatto un seguito, anche perché la coppia Porel/Lovelock funzionava alla grande sullo schermo. Lo stesso Lovelock mi confida spesso che è un suo grande rammarico non aver girato il sequel. Film duro, con un Adolfo Celi eccezionale…

Ma avevate in mente di fare un seguito? Come mai non si concretizzò?

Bisognava fare un seguito ma poi il produttore decise di fare un altro genere di film, L’AVVOCATICCHIO o qualche cosa del genere… Una cantonata colossale, una scelta scellerata dettata anche dalla paura di investire soldi in un progetto di maggiore portata perché era ovvio che il sequel, sulla scia del successo dell’originale, avrebbe comportato onorari più alti per tutti quanti noi. Comunque il film non si fece e io deluso presi tutt’altra strada inaugurando il cannibalico con ULTIMO MONDO CANNIBALE, che invece fu un successo.

Come mai non hai comunque proseguito nel poliziesco dato che, anche se con un solo film, avevi già lasciato una impronta importante?

Fondamentalmente la causa è dovuta al mio forte spirito di avventura. Sono un amante del rischio, mi piace sperimentare e sono sempre stato restio ad adoperarmi nei seguiti o nei rifacimenti. Mi interessava esplorare e mettermi costantemente alla prova. Era una sorta di sfida con me stesso.

Quando mi venne offerta la possibilità di fare un film in Malesia, un film con maggiori aspirazione internazionali di un qualunque poliziesco, non ci pensai su un solo minuto. Cambiare, cambiare sempre: è un atteggiamento che ha costellato la mia carriera artistica. L’ho fatto nel cinema, l’ho fatto in televisione, quando giravo le fiction: ho rifiutato di girare il seguito de I RAGAZZI DEL MURETTO, un grosso successo di pubblico, per andare a girare un Bud Spencer movie in Costarica…

Per me era importante lanciarmi sempre in nuove esperienze. Mi considero un regista eclettico e poliedrico e il mio curriculum lo testimonia: comici, drammatici, polizieschi, fantastici, horror, cannibalici, sentimentali, spot tv, televisione, fiction, documentari. Perché mi piace, adoro usare la mdp e adoro sperimentare.

In UOMINI SI NASCE… ci ha colpito il modo in cui hai tratteggiato questa “coppia di sbirri”, anche perché all’epoca in America andavano di moda tipologie diverse: penso a STARSKY & HUTCH, poliziotti politicamente corretti, invece la coppia Lovelock/Porel era politicamente scorretta, dissacratoria, con metodi d’indagine discutibili… perché questa scelta?

L’origine di questa mia scelta deriva dal vissuto quotidiano della città di Roma e dalla conoscenza del tessuto sociale della metropoli capitolina: all’epoca esisteva una malavita romana pazzesca, crudele, che non risparmiava nessuno. A quei tempi ricordo che conobbi uno dei boss locali, un personaggio strano, un ometto alto non più di un metro e sessanta, che mi incuriosì molto. Una volta gli chiesi come era possibile per lui vivere quella vita e come aveva fatto ad “arrivare” in alto. La sua risposta mi ghiacciò il sangue <<Perché io ho il coraggio di fare uccidere un uomo>>.

Era un periodo talmente crudele da parte della mala che pensai che l’unico modo per poterla contrastare fosse quello di mettere in azione due poliziotti altrettanto spregiudicati, in grado di infiltrarsi nel “giro” (cosa che oggi si usa fare ma all’epoca non faceva propriamente parte delle procedure di polizia). Questa tipologia di poliziotto mi piacque. Tieni conto poi che questa iconografia era ormai abbastanza tradizionale nel nostro cinema poliziesco: la figura dell’uomo forte, deciso, senza remore di fronte alla criminalità, rappresentava idealmente un sentimento molto radicato nella società italiana, sfiduciata dal clima di tensione degli anni di piombo e dalla presunta incapacità delle forze dell’ordine di proteggere i “cittadini perbene”.

Cinematograficamente noi avvertivamo queste pulsioni del pubblico e le ricambiavamo con figure di poliziotti duri, scorretti, un po’ all’americana e con ciò non mi riferisco all’Ispettore Callaghan ma alla realtà dei poliziotti americani, duri, decisi. I nostri erano decisamente più sornioni, meno “rocciosi” se mi passi il termine.

Tornando a UOMINI SI NASCE… mi piacque anche l’idea della copertura istituzionale di cui la coppia Porel/Lovelock poteva fruire: l’idea di una squadra speciale, quasi con “licenza di uccidere”, avallata dal commissario (uno strepitoso Adolfo Celi) che quasi machiavellicamente critica il metodo ma poi alla fine non può che arrendersi all’evidenza dei risultati e convincersi che, in questi casi, il fine giustifica davvero i mezzi e lo dimostra nel migliore dei modi, salvando la vita ai due agenti. Sono sincero: fino all’ultimo ero indeciso sul finale del film, nel senso che accarezzavo l’idea di un epilogo molto più amaro in cui anche per Porel/Lovelock non c’era scampo, perché volevo completare il concetto che non c’era differenza tra quei poliziotti e quei malavitosi, nemmeno nella morte. Ma poi ho optato per quello che tutti conoscete perché mi convinsi che sarebbe stato cinicamente ben più efficace.

Viste le tante sequenze di sangue, alcune ai limiti dello splatter, hai avuto problemi con la censura in questo film. Più in generale quali sono stati i tuoi rapporti, regista spesso così estremo ed esplicito, con la censura?

Altroché se ho avuto problemi! E non solo per la famosa scena tagliata in cui Salvatori calpesta e spiaccica l’occhio che ha appena cavato a uno spione. Il film uscì con il divieto ai minori di 18 anni. E questo influì non poco sugli esiti commerciali della pellicola. Anche perché il divieto ai minori fu la causa per cui non trovò mai uno sbocco televisivo. Sulla censura ti posso dire una cosa: l’ho sempre odiata! Trovo assurdo che si censurino film per il cinema, in cui totale è la libertà di scelta del cittadino nel decidere se e come andare a vedere una pellicola, rispetto alla Tv che invece è aperta e accessibile a tutti, soprattutto ai bambini, dove invece passano violenze di ogni genere. A me piaceva sfidare la censura, vedere le loro reazioni, anche se poi alla fine erano loro ad aver sempre ragione.

Come si diceva UOMINI SI NASCE… stupisce anche per la sua capacità di contaminare il genere poliziesco con alcune peculiarità visive tipiche del cinema splatter. Una cosa decisamente innovativa che verrà ripresa qualche anno dopo con maestria anche da Fulci in LUCA IL CONTRABBANDIERE. Come mai questa scelta?

Sinceramente non avevo, all’epoca, la percezione né dello splatter, né del gore, filoni decisamente più americani che europei. Io non sono mai andato appresso ai generi, mi considero un regista distinto, molto rosselliniano. Ultimamente rivedendo ROMA CITTA’ APERTA mi stupisco ancora della durezza e della crudeltà di alcune scene. Così come Rossellini allora, così io non pensavo ad altro che alla violenza che si consumava tra le strade di Roma. Cercavo di renderla più reale possibile, una sorta di iperrealismo sulla scia di quel neorealismo che mi ha sempre affascinato.

Non mi piace farmi catalogare od etichettare sotto queste definizioni, “gore, splatter, horror”. Se ho messo in scena una violenza così truce l’ho sempre fatto perché quello era il grado di violenza che esisteva nella realtà di un dato contesto storico e geografico.

Prendi CANNIBAL HOLOCAUST: mi fanno ridere quelli che lo definiscono film horror. Non è horror! E’ un film neorealistico, che narra di verità profonde, pratiche cannibaliche assolutamente orrende ma che esistevano ed erano quindi una realtà che io ho riportato il più fedelmente possibile su pellicola. Con questo non voglio denigrare il genere, ci mancherebbe. Anche perché l’ho frequentato con altri film successivi. Però ci tengo a dire che in UOMINI SI NASCE… così come negli altri film che ho girato, la violenza era così esplicitamente truce perché voleva essere fedele alla realtà.

Visto che hai introdotto il discorso CANNIBAL HOLOCAUST volevamo chiederti un giudizio su Barbareschi che continua da un lato a negare qualunque rapporto con il film (vedere il suo sito per credere) dall’altro invece ne parla bene (vedere l’intervista sul DVD della Alan Young). Com’è questa storia?

Luca è un personaggio scomodo, ultimamente ho pure avuto degli scontri con lui per questioni di lavoro. Per molti giornalisti lui ha rinnegato il film CANNIBAL HOLOCAUST, dicendo che non sapeva di dover fare un film così violento ed esplicito. Però la cosa a mio favore è che lui ha fatto il seguito di CANNIBAL HOLOCAUST e cioè INFERNO IN DIRETTA. Quindi è recidivo! (ride)

Chiaramente è un personaggio che vuole stare con il pubblico ed i media e dunque ha paura di andare controcorrente. Per me, con questo comportamento ed in questo frangente ha dimostrato di essere un uomo poco corretto.

Tu hai inaugurato il genere cannibalico che, lasciamelo dire, volente o nolente è un sottogenere dell’horror italiano, con ULTIMO MONDO CANNIBALE. Un ambito, quello cannibal, tipicamente italiano che riscuote ancora oggi grande successo all’estero. Mi spieghi il perché della scelta narrativa sull’antropofagia? Voleva essere una risposta tutta italiana allo zombie movie americano-romeriano?

L’antropofagia era una delle pratiche più antiche dell’uomo. Perché nasceva come soddisfazione di un esigenza basilare per l’uomo che è quella alimentare. E poi perché nascondeva anche aspetti di carattere religioso, vedi ad esempio l’idea che avevano queste tribù primitive di impossessarsi della forza e dello spirito del nemico sconfitto mangiandone le carni. Tutto questo mi affascinava e l’idea del film mi venne in mente dopo aver letto un articolo sul National Geographic che narrava le gesta di una troupe recatasi sull’isola di Mindanua a realizzare un reportage su alcune tribù di autentici cannibali. Quindi nessuna risposta italiana all’iconografia dello zombie costruita da Romero con LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI, bensì la volontà mia di rappresentare una pratica atavica orripilante ma che è indiscutibilmente legata alla figura dell’uomo stesso.

CANNIBAL HOLOCAUST nasconde un forte messaggio di critica nei confronti dei mass media e della spettacolarizzazione speculatoria di tante scene di violenza che questi adottano sempre più. La tua idea di fondo (il reportage ritrovato e il network che fino all’ultimo è indeciso dell’uso da farne) è stata oggetto di un vero e proprio plagio: mi riferisco a THE BLAIR WITCH PROJECT…

Purtroppo me ne sono accorto molto tardi, quando un giornalista della RAI mi rivelò che girava nelle sale questo film e che più di uno spettatore, dopo la visione, commentava così <<Ma questo è un film che ha già girato un regista italiano, Ruggero Deodato!>>.

Al che andai a vedere il film ed effettivamente constatai che il film era davvero copiato, anzi foto-copiato perché adottava la stessa scaletta della mia pellicola. Mi fece un brutto effetto. Anche Oliver Stone mi confidò durante una sua visita a Roma <<quei ragazzi hanno fatto fortuna con il film di Deodato, ma Deodato ha fatto altrettanta fortuna?>>.

Volevo anche intentare causa ma che vuoi farci, sono un signore e grazie a Dio non ho problemi economici.

E’ vero che Sergio Leone, quando vide il film, ne rimase molto impressionato?

E’ vero. Sergio era una caro amico. Vedevamo spesso film insieme, a casa sua, a casa mia. Tramite Franco Palaggi, produttore di CANNIBAL HOLOCAUST ma anche di PER UN PUGNO DI DOLLARI, facemmo vedere il film a Sergio che alla fine della proiezione mi disse queste parole <<accidenti che film! Nella prima parte è un film normale, ma nella seconda parte… beh è un capolavoro. Però passerai anche tanti guai con questo film>>.

Fu profetico. CANNIBAL HOLOCAUST mi ha reso famoso nel mondo ma mi ha anche procurato una caterva di grane giudiziarie.

Nel film recita Robert Kerman, con esperienze nel cinema hard. Come lo scegliesti?

Robert Kerman lo tirai fuori tramite il mio casting director, Lou Di Giaimo uomo di fiducia anche di Ridley Scott, che mi procurava gli attori americani. Kerman fece una particina nel film CONCORDE AFFAIRE che girai qualche tempo prima. Siccome mi piacque quella sua interpretazione lo richiesi anche per CANNIBAL HOLOCAUST. Non sapevo allora che avesse avuto esperienze nell’hard.

Se oggi tu dovessi rifare CANNIBAL HOLOCAUST, in che modo lo gireresti?

CANNIBAL HOLOCAUST è un film impossibile da ripetere, perché è frutto della creatività di quel dato momento storico. Un film piacevole da girare, in cui mi sono divertito, in cui ho dato libero sfogo al mio istinto, giorno per giorno. E forse è proprio per questo che è venuto così bene.

Ho pensato a dei seguiti, ne ho scritto anche uno che si intitola CANNIBAL HOLOCAUST METROPOLITANO. Ho già pronta anche la sceneggiatura e l’ho già fatta leggere a un paio di produttori: piace molto però è un film molto costoso e che non riesco a farmi produrre. Ultimamente ne ho scritto un altro, affine a CANNIBAL HOLOCAUST, sempre di ambientazione metropolitana, da girare a Roma. Un film epidermico, con parecchi punti forti che per me potrebbe avere un successo anche maggiore di CANNIBAL HOLOCAUST. Sul genere di PULP FICTION, un film che piacerebbe molto a Tarantino infatti ho in mente di tradurre lo script in inglese e provare a mandarglielo.

Dopo CANNIBAL HOLOCAUST giri un altro film iperviolento, del genere rape&revenge, dal titolo LA CASA SPERDUTA NEL PARCO. Dì la verità: ti sei fatto un po’ influenzare da L’ULTIMA CASA A SINISTRA di Craven?

Beh anche solo per il fatto che l’attore protagonista… è lo stesso! (ride). Battute a parte devo dire che il film di Wes mi piacque molto e soprattutto mi piacque l’interpretazione che David Hess fece. Così morbosamente perversa e folle. Volevo assolutamente averlo tra le mie mani e devo dire che non deluse le mie aspettative: davvero un pazzo scatenato! (ride)

Il film è decisamente claustrofobico…

Mi interessava ambientare la vicenda in uno spazio chiuso e delimitato per dare spazio a un percorso anche introspettivo della follia dei due maniaci omicida. Tant’è che credo di aver girate sequenze in esterno per non oltre una manciata di minuti. La coppia Hess/John Morghen si prestò bene a quel ruolo e devo dire che la prima parte del film mi soddisfa molto da questo punto di vista.

Un film che so esserti sempre piaciuto molto è THE BARBARIANS & CO.

Non sono un grande amante dei fantasy ma quella pellicola invece mi è particolarmente gradita. Perché ho capovolto il film commistionando il genere epico/storico alla CONAN IL BARBARO con elementi di divertissement inusuali per pellicole di quel filone. Il risultato è un film avventuroso ma divertente, in cui funzionano bene le gag fra i due gemelli culturisti che erano litigiosi tanto sulla pellicola quanto nella realtà.

Un film che aveva dei mezzi, con la produzione Canon che aveva abbastanza soldi. Forse oggi amplierei alcuni aspetti, magari spettacolarizzando maggiormente alcune scene, ma tutto sommato avevamo anche paura che qualcuno si potesse fare male e i tempi di realizzazione non erano poi così ampi da permetterci il lusso di aspettare che qualche infortunato guarisse! (ride)

Con CAMPING DEL TERRORE offri il tuo contributo al filone dello slasher movie, genere prolificato soprattutto in america coi vari VENERDI’ 13, HALLOWEEN, SCREAM ed epigoni vari, ma nato proprio in Italia attraverso le geniali anticipazioni di film come SEI DONNE PER L’ASSASSINO e REAZIONE A CATENA di Mario Bava e I CORPI PRESENTANO TRACCE DI VIOLENZA CARNALE di Sergio Martino. Cosa ne pensi di questo genere?

Beh il genere se è ben fatto mi piace. Se ha sempre qualche cosa di realistico mi piace. Gli esempi italiani da te citati sono indiscutibilmente degli ottimi esemplari di buon cinema. Le pellicole americane del genere mi convincono solo se non eccedono nello splatter o nel gore gratuito. CAMPING DEL TERRORE mi pare più affine a queste ultime e quindi mi fa un po’ sorridere proprio nei suoi eccessi visivi. Quindi non ne conservo un gran ricordo, lo definirei più una “marchetta” (ride).

Anche se ci sono un paio di passaggi decisamente suspense che secondo me valgono il classico prezzo del biglietto. E poi è un film in cui mi si è consentito di “fare la festa” a un bel pezzo di figliola come Nancy Brilli! (ride)

Nel 1988 giri UN DELITTO POCO COMUNE, incursione nel filone giallistico più tradizionale, con un cast internazionale di grande rilievo: Michael York, Donald Pleasance, Edwige Fenech…

Cast eccezionale, produzione importante. Fu un piacere lavorare con tutti loro. Michael York era un professionista straordinario e Donald Pleasance è stato forse l’attore più prestigioso che ho avuto, di una intelligenza e una genialità fuori dalla norma. All’apparenza non sembrava un attore dotato di grande mimica facciale o particolari capacità espressiva. Ma poi appena avviavo la mdp si trasformava letteralmente, i suoi occhi si illuminavano e iniziava a recitare alla grande.

Un film questo che mi piace molto, del quale magari cambierei qualche cosa nel finale, forse un po’ troppo appesantito da una manciata di scene non indispensabili. Un film che ho amato fare perché tratta di una dimensione molto realistica, quella dello sofferenza e del dolore indotto dalla malattia, nello specifico la progeria, una malattia molto rara che induce un invecchiamento accelerato dei tessuti e che, ovviamente, porta un uomo alla disperazione, alla solitudine e alla follia finale. E’ una riflessione personale sull’orrore reale della malattia. Mi interessava cogliere il senso di totale abbandono di ogni limite morale ed etico da parte di chi sa di non avere più alcuna chance di restare in vita. Una sorta di limbo folle e atavico in cui la malattia è la chiave di volta per liberare gli istinti più primordiali dell’uomo. Credo di aver ottenuto lo scopo che mi ero prefisso. E’ un film che mi soddisfa in toto.

Tra l’altro anche questa storia è stata palesemente ricalcata da una nota serie tv americana, XFILES. Come ti spieghi il fatto che gli americani sono sempre così bravi nel carpire ciò che funziona dagli altri, battendo sempre sul tempo gli omologhi stranieri che arrivano sempre “al gancio”? Penso non solo ai casi italiani, ma anche a quelli orientali (ad esempio le operazioni di remaking effettuate con THE RING e THE GRUDGE ecc. ecc.)

Perché gli americani non hanno pregiudizi di sorta, guardano tutto, sono onnivori. Hanno un grosso vantaggio: se prendono un nostro film di serie C, una storia della quale intuiscono le potenzialità narrative, lo rifanno coi mezzi che hanno loro a disposizione ed eccoti servito il kolossal o il capolavoro. Con buona pace del modello originario di cui, pochi, si ricordano. E’ un po’ quello che fa, con furbizia, Quentin Tarantino…

Perché dopo tanti anni di autentico splendore del cinema di genere italiano improvvisamente da noi tutto è finito mentre invece all’estero il cinema di genere viene fatto ancora e con ottimi risultati? Pensiamo alla nuova frontiera del noir hongkonghese, dell’horror japponese con il fenomeno RINGU, del wuxiapian cinese, dello stesso horror americano coi vari RESIDENT EVIL, CABIN FEVER, UNDERWORLD, i remakes, il fantasy di Peter Jackson…

Sai queste cose io penso siano dettate anche da cicli storici. A un certo punto il nostro cinema era diventato una vera e propria fucina di generi. Eravamo bravissimi nell’inventare e nel re-inventare fino alla saturazione (guarda tu cosa abbiamo fatto con il western!). Abbiamo sempre riproposto dei nuovi generi fino a che siamo arrivati al punto di aver spremuto fino all’osso le potenzialità creative e innovative di quei tipi di cinema.

Voglio dire: se dopo aver girato PER UN PUGNO DI DOLLARI oppure L’UCCELLO DALLE PIUME DI CRISTALLO ti arrivano altri 400 film che ne seguono la scia senza però averne la fattura originale, è ovvio che a subirne maggior danno sarà il genere stesso perché la pletora di pellicole grottesche, farsesche addirittura parodistiche andranno a minare i topoi “seri” su cui si è fondato il genere stesso, ridicolizzandolo e facendogli perdere in credibilità agli occhi del pubblico.

Questi filmacci facevano arricchire parecchi produttori alle prime armi, veri e propri speculatori che arraffavano tutto ciò che potevano portare via e poi sparivano dalla circolazione per sempre, ma lentamente conducevano i generi alla morte. Poi l’avvento delle nuove tecnologie ha rinverdito i fasti dei generi, ma solo nelle produzioni USA. E perché questo? Perché gli americani per primi hanno intuito le potenzialità che stavano nella post-produzione, nella creazione degli effetti speciali e vi hanno investito grandi somme di denaro. Questo ha creato un gap fra le produzioni USA e le nostre impossibile da colmare e parecchi produttori hanno deciso di buttare la spugna di fronte a cotanta disparità di risorse.

Per concludere ti chiediamo cosa significa per te vivere questa fase di recupero del cinema di genere italiano, una sorta di rivincita nei confronti di una critica che vi ha sempre pesantemente marginalizzato e che oggi è costretta a ricredersi di fronte anche a certificazioni di prestigio come quella che è giunta dal Festival di Venezia qualche anno fa?

Questa è una cosa buona ma mi auguro che non si fermi solo all’aspetto celebrativo. Se questo movimento culturale fosse così numeroso come io credo, allora sarebbe doveroso far ripartire un produzione nostrana legata ai generi che soddisfi questa rinnovata esigenza. Ma nessun produttore ha questo tipo di coraggio. Perché i produttori hanno un unico chiodo fisso, la commerciabilità del prodotto filmico in TV.

 Come si fa a pensare di poter vendere in TV un cinema nato per essere visto al cinema? Come si fa a pensare di snaturare il cinema di genere solo per poterlo far passare in un prime time televisivo? Fino a che qualcuno non avrà il coraggio di fare un film forte, fregandosene di queste fisime, trovo difficile una vera rinascita del cinema di genere.

Il problema è partire. Chi vuole osare?

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