Qualcuno telefona in piena notte a Bianca Maris. La sua vicina la implora di correre ad aiutarla: sta male, sta molto male. Ma quando Bianca la raggiunge, la vicina è già morta: qualcuno le ha tagliato la gola. Poi il telefono squilla ancora: stavolta chi la chiama è un bambino. Qualcuno l’ha rapito, lo tiene prigioniero, vuol fargli del male; la chiama “mamma” anche se Bianca non ha figli, non può averne: un’isterectomia l’ha resa completamente sterile a sedici anni. Chi è quel bambino? Perché è stato rapito? E perché Bianca sente il dovere di salvarlo?
Trama tormentata, dalle tinte e dai sapori kafkiani, la storia di Old boy, tratta da un manga di Nobuaki Minegishi e Garon Tsuchiya, è stata raccontata per la prima volta al cinema nel 2003, per mano del regista coreano Park Chan-wook. Il film narra di un uomo, Oh Dae-Su, che un giorno viene rapito e rinchiuso in una cella angusta, nella quale verrà lasciato per oltre quindici anni.
La giovane Angel, una minuta ragazza sordomuta, vive rinchiusa in un bordello nascosto tra le nebbie dei Balcani; il suo compito è occuparsi delle altre ragazze costrette a prostituirsi, drogarle, lavarle e renderle presentabili ai soldati che vengono a divertirsi. Pur essendo il suo un lavoro quasi privilegiato ed essendo lei tenuta in considerazione dal gestore del bordello, Victor, nel momento in cui si presenteranno i militari colpevoli di aver sterminato la sua famiglia e una delle ragazze verrà violentata a morte, Angel si vendicherà e tenterà finalmente la fuga impossibile.
Difficile che considerati i confortanti esiti di critica e pubblico al valido I Spit on Your Grave firmato Steven R. Monroe, remake dell’omonimo cult del rape&revenge di Meir Zarchi del 1978, non venisse concessa la possibilità – e l’onere – di un sequel. Decisamente più strano che ci siano voluti tre anni per metterlo in cantiere, gettando alle ortiche il discreto hype sorto intorno alla pellicola ormai tre anni fa.