Category: Mostri

L’ora nera naufraga nel mare della mediocrità più profonda.

Atterrati a Mosca con la prospettiva di vendere un’innovativa applicazione per telefoni cellulari a dei magnati russi, i due giovani programmatori Sean e Ben scoprono che un collega svedese si è appropriato dell’idea e ha concluso l’affare prima di loro. Per consolarsi, decidono di passare la serata in uno dei locali più glamour della capitale, dove stringono amicizia con due turiste americane. Fra una vodka e l’altra, all’improvviso la città viene paralizzata da un gigantesco black out e dal cielo cominciano a scendere degli strani fasci di luce…

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Il Diavolo del New jersey torna a infestare il grande schermo.

La pineta dei Barrens si trova nel sud- est del New jersey e pare sia un luogo alquanto tetro e misterioso. Di certo vanta  un numero considerevole  di leggende spaventose tra le quali la più celebre è senza alcun dubbio quella del famigerato Diavolo  del New jersey.

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Incubo sulla città contaminata è brutto, ma di un brutto che rasenta il bello.

Dean Miller, giornalista televisivo, è incaricato di intervistare un famoso scienziato che sta per atterrare all’aeroporto cittadino. Ma insieme allo scienziato scendono anche dei mostri che travolgono le forze di polizia e invadono la città. La causa della mutazione dei passeggeri è una fuga radioattiva da una centrale atomica. Essa determina la trasformazione degli esseri viventi in terribili appestati mossi da furia omicida.

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Davanti all’opportunità di indossare una maschera vera, Jason Voorhees trova finalmente la sua vera pelle, l’anello mancante, il trait d’union della sua personalità scissa.

Dopo l’accusa di essere soltanto “una brutta copia del Michael Myers carpenteriano”, Jason Voorhees trova, definitivamente, la sua vera identità. Il protagonista della saga di Venerdì 13, infatti, era un omaccione deforme e ripugnante, uno scimmione rabbioso, caratterizzato “soltanto” da una camminata goffa tipica dei morti viventi. Almeno fino a questo momento. Steve Miner, nuovamente in cabina di regia, dirigendo Venerdì 13: Weekend di terrore, infatti, trova il giusto escamotage per regalare al villain il suo agognato emblema, il suo tratto distintivo, lo stendardo dell’intera saga.

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Film rozzo e noioso, anonimo capitolo di una saga stanca e che ha iniziato a mostrare evidenti segni di cedimento almeno dal quinto capitolo. A esser generosi.

Un gruppo di studenti festeggia il diploma partendo alla volta di New York su un assai improbabile peschereccio (spacciato goffamente per nave da crociera). Nessuno di loro si accorge però che, come le cozze alla chiglia di una nave, il redivivo Jason Voorhees, emergendo dalle acque e afferrando una delle funi dell’imbarcazione, è salito nottetempo a bordo e si è unito alla gioviale compagnia al fine di dare seguito alla solita, prevedibile mattanza.

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Cunningham dice addio alla sua creatura nel peggior modo possibile, con una pellicola troppo distante dalla sua poetica e un villain cyborg ma scarno e debole

Jason Woorhees è come una maledizione. Puoi provare a debellarlo tutte le volte che vuoi, ma tornerà sempre a tormentarti. A quasi 10 anni di distanza dal già di per se dubbio Jason va all’inferno (1993), infatti, Sean Cunningham continua inesorabilmente a produrre il goffo franchise derivato dal suo primo film Venerdì 13 (1980), di certo non uno dei migliori film horror della storia del cinema, ma a suo modo onesto e, in un certo senso, coerente con la linea cinematografica degli anni Ottanta, affidando a James Isaac la regia di Jason X.

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Se avete visto il suo precedente film “Wendigo” sapete che dal regista Larry Fessenden (Habit) ci si possono aspettare film horror che vale la pena vedere.

Non fa eccezione questo “The last winter”, scritto dallo stesso Fessenden in coppia con Robert Leaver. Fessenden mette in scena nel territorio artico una sua personale visione dell’apocalisse, che nasce dalla somma di piccoli eventi che non sembrano, singolarmente, avere la forza dirompente che dimostrano una volta collegati tra loro.

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Non possiamo che consigliarvi questo Little deaths, una vera sorpresa di fine anno.

Capita di raro, ma per fortuna capita, che, senza conoscere i titoli dei film, ci si imbatta in un cestone da grande magazzino, quello con i dvd dai titoli più assurdi, Zombi contro Dracula, Le mutandine rosse della morte, e tra mille ciofeche capiti il capolavoro. E’ il caso di Little deaths, traduzione inglese del termine francese petite mort, ovvero orgasmo, opera antologica inglese diretta da tre promettenti registi indipendenti, Andrew Parkinson, Sean Hogan e Simon Rumley.

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Impossibile forse gustarselo in pieno se si ha la pretesa di un altro Carpenter…

Recensire il prequel de La cosa, classico scifi horror, è difficoltoso per diverse ragioni, la maggiore è l’ombra di un precedente tanto illustre. The thing, mega flop ingiustificato al botteghino, è un classico irraggiungibile per l’uso della musica, della tensione, per l’idea di girare in maniera assolutamente suicida sul piano commerciale una storia di soli uomini, dove l’elemento femminile, chi si riproduce, chi porta in sè blasfemamente l’idea di fertilità, è un alieno.

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Bloodline è uno dei pochi piaceri della vita che, insieme al calcio, difficilmente dividerete con la ragazza aristocratica che amate.

La giovane giornalista freelance Sara, insieme all’operatore Marco, arriva sul set dell’ultimo film di Klaus Kinki, re del porno sperimentale, per girare un backstage da mandare in onda come ricatto per non essere licenziati. Ben presto, Sara si rende conto che si tratta dello stesso luogo in cui, da bambina, è stata costretta ad assistere all’uccisione della sua sorellina per mano di un pericolosissimo serial killer chiamato il Chirurgo.

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