Cinema Storia del Cinema Horror Italiano – vol. 4

Storia del Cinema Horror Italiano – vol. 4

L’orrore da un altro mondo: fantascienza e cinema di paura.

Di ben altro spessore invece è l’adattamento sul grande schermo del capolavoro letterario di Richard Matheson I AM LEGEND realizzato da Ubaldo Ragona con il titolo evocativo di L’ULTIMO UOMO SULLA TERRA, tra l’altro oggetto di un recentissimo remake interpretato da Will Smith.

Sorvolando sulla querelle circa l’effettiva paternità dell’opera (Davide Pulici, su Nocturno, sostiene che la pellicola sia da attribuire a Sidney Salkow così come riportato dalla versione americana, mentre Ragona avrebbe girato solo alcune scene di raccordo) ciò che conta davvero sono la compattezza e la solidità di un film che presenta pochissimi punti deboli.

Claustrofobico, paranoico e narrativamente ottimizzato dalla performance di un grande interprete quale fu Vincent Price, la pellicola di Ragona si può tranquillamente definire il primo fanta-horror apocalittico italiano. Precipitando il protagonista in un mondo sconvolto da una ecatombe virale che ha spazzato via l’intero genere umano trasformando le persone in orde fameliche di vampiri, Ragona costruisce un dramma nel dramma, quello della solitudine interiore dell’ultimo superstite, una tragedia che si alimenta sia con la crudele sofferenza legata alla morte dei familiari, sia con la paradossale consapevolezza di essere divenuto egli stesso il diverso, il mostro (<<quando l’anormalità diventa normalità allora è il normale a rappresentare il diverso>>). Girato in un efficace bianco e nero (scelta indispensabile per aumentare l’angoscia e avvolgere tutto in un’atmosfera tetra, decadente e senza speranza) il lungometraggio si giova di numerosi momenti di forte impatto visivo (le molte riprese esterne che ci mostrano una Los Angeles, in realtà Roma, completamente deserta e immobile, soffocata dalle carcasse delle autovetture e dal puzzo pestilenziale dei cadaveri in putrefazione) che si sublimano nella sconvolgente sequenza di una fossa comune in cui sono stipati i cadaveri dei vampiri ammazzati dal “vendicatore” Price.

Ragona apre ufficialmente la strada anche in Italia al cinema di fantascienza orrorifica laddove lega situazioni tipiche della sci-fi (l’ambientazione futura, le pandemie causate da virus mutanti, lo scenario apocalittico simil post-atomico) a iconografie classiche del cinema horror (il vampirismo), una lezione che verrà subito raccolta (e, per certi versi, radicalizzata) da Mario Bava un paio d’anni dopo e anche da George Romero che nella sua saga zombesca vi infilerà, indirettamente, più di uno spunto (dalla rappresentazione dei suoi morti viventi, così simili per movenze e fattezze ai vampiri di Ragona, all’ambientazione urbana desolata e devastata). Hollywood renderà poi omaggio diretto al classico di Ragona tramite Boris Sagal che ne girerà il remake nel 1971, 1975: OCCHI BIANCHI SUL PIANETA TERRA con Charlton Heston.

Nemmeno il tempo di rifiatare che dallo spazio profondo nuovi terrori sono pronti a sconvolgere il pubblico italiano. Fiutando che la contaminazione tra horror e sci-fi poteva funzionare a Cinecittà si mette in produzione il nostro più famoso esemplare di fantascienza orrorifica.

Due astronavi che orbitano attorno ad un pianeta sconosciuto; lo strano mondo, ricoperto da una fitta nebbia perenne, invia dei misteriosi segnali d’aiuto; gli astronauti atterrano sul pianeta per scoprire l’origine degli anomali messaggi e presto si rendono conto che essi provengono da una costruzione aliena; strani fenomeni di possessione e misteriosi delitti cominciano ad imperversare tra il personale delle due astronavi: oscure entità aliene si impadroniscono dei corpi di alcuni cosmonauti per sopraffare tutti i superstiti ma nello scontro finale con l’ultimo sopravvissuto i motori di volo vengono danneggiati mandando il veivolo spaziale alla deriva fino a quando esso non si avvicina ad un piccolo pianeta chiamato… Terra!
Quella che vi abbiamo raccontato in pillole non è il soggetto di ALIEN, film culto della fantascienza orrorifica globale ad opera di Ridley Scott, bensì la trama di un altro piccolo gioiello del cinema di paura, quel TERRORE NELLO SPAZIO che Mario Bava diresse nel 1965, ovvero ben quattordici anni prima.

Tratto dal racconto di Renato Pestriero dal titolo UNA NOTTE DI 21 ORE, la pellicola di Bava rappresenta un ulteriore, decisivo tassello che il maestro sanremese regala al mosaico del cinema di paura italiano. Difficilmente classificabile entro le coordinate di un genere preciso, il film di Bava costituisce un filone a sé stante in cui convivono armoniosamente gli stilemi del giallo (le indagini per la ricerca di un assassino), quelli del gotico (il parassitismo dell’alien come metafora della possessione diabolica, la linfa vitale estirpata alle vittime come analogia simbolica della suzione ematica vampirica) e della fantascienza (l’ambientazione).

Magistrale direttore d’orchestra dall’inconfondibile stile visionario l’autore sfrutta al meglio il contesto non terrestre in cui si svolge il plot per dare libero sfogo alle proprie pulsioni estetiche: l’utilizzo delle luci e la scenografia del pianeta costituiscono una summa di soluzioni cromatiche estreme, quasi esagerate, dall’effetto volutamente straniante che rimanda, per certi versi, addirittura ad una concezione espressionista dello spazio filmico. Assoluto padrone della mdp, che calibra con una straordinaria fluidità nei suoi movimenti (a eccezion fatta per l’uso, forse un poco eccessivo, dello zoom) Bava con TERRORE NELLO SPAZIO cala lo spettatore in un universo fatto di suoni raggelanti ed ipnotici, di fumi e melme in ebollizione, di morti viventi e terrori ancestrali, un vero e proprio incubo dai tratti quasi surreali che gioca con il pubblico (e la sua paura) come farebbe il gatto con il topo. Ingannati fin dall’inizio dalla furbesca genialità del cineasta ligure (tutti siamo portati a credere che gli equipaggi delle due astronavi siano terrestri mentre in realtà, solo alla fine scopriremo che così non è) non possiamo far altro che “arrenderci” di fronte a un opera matura e complessa che sotto parecchi aspetti anticipa la fantascienza “adulta” degli anni settanta.

LA SECONDA META’ DEI SIXTIES: MATURITA’ E DECLINO DEL GOTICO

Nella seconda metà degli anni sessanta il genere piazza alcuni “colpi” di un certo interesse dimostrandosi ancora vitale nonostante parecchi detrattori già facessero presagire una certa “stanchezza”.

AMANTI D’OLTRETOMBA (1965) di Mario Caiano è una suggestivo film d’atmosfera, abbastanza lento ma comunque coinvolgente grazie alla presenza della sempre brava ed affascinante Barbara Steele e a un finale non consolatorio che lascia il segno. Fotografato con stile ed eleganza e ottimamente musicato da un maestro del calibro di Ennio Morricone, il lungometraggio si caratterizza come un crogiolo in cui sono sapientemente emulsionati pressoché tutti gli ingredienti base del gotico, dal vampirismo alla vendetta sovrannaturale, dai fantasmi alla possessione demoniaca, dal tema dell’eterna giovinezza al dualismo della figura femminile (Barbara Steele si sdoppia egregiamente nei due ruoli tipici dell’eroina perseguitata e della vendicatrice implacabile).

Dello stesso anno anche LA VENDETTA DI LADY MORGAN di Massimo Pupillo, prodotto di buona fattura tecnica (solida sceneggiatura di Gianni Grimaldi, già autore di DANZA MACABRA) in cui è narrata la morbosa vicenda criminale di un gruppo di persone senza scrupoli (in cui “militano” Paul Muller e la sensualissima Erika Blanc) che ordiscono un piano delittuoso ai danni di una giovane ereditiera per carpirne i cospicui beni economici. La vittima, però, riuscirà a farsi giustizia da sola ritornando dall’aldilà.

Pellicola violenta ed estremamente cruda (si potrebbe quasi parlare di una sorta di proto-gore viste alcune sequenze d’omicidio) LA VENDETTA DI LADY MORGAN colpisce soprattutto per il suo taglio cupo, non consolatorio, privo di qualunque minimo segno di ironia, in cui la parte del leone la fa un destino crudele e beffardo al tempo stesso, ineluttabile nel colpire i buoni (la giovane Lady Morgan) come i cattivi quasi a voler sottolineare la totale assenza di scampo per chiunque. Pupillo pessimista e maliziosamente morboso nel costruire un triangolo tra Muller, la Blank e Gordon Mitchell (nel ruolo del maggiordomo) che non manca di allusioni erotiche sinistre e malsane.

Decisamente meno riuscito invece è il successivo lavoro di Pupillo: 5 TOMBE PER UN MEDIUM si segnala infatti per un uso eccessivo di effetti speciali alquanto grossolani inseriti in un plot che non aggiunge nulla di nuovo rispetto a tanti altri prodotti già realizzati. Anche l’onnipresente Barbara Steele, qui con una inedita acconciatura bionda, pare abbastanza spaesata nel suo ruolo di eroina minacciata. Pare sia stata girata una versione più dura per il mercato estero, con rimandi erotici più espliciti (si vocifera di una scena in cui la Steele fa il bagno nuda), ma anche così fosse non crediamo che il risultato finale possa comunque cambiare in meglio.

Il 1966 si apre con due film abbastanza marginali, UN ANGELO PER SATANA di Camillo Mastrocinque (sorta di remake malriuscito di LA CRIPTA E L’INCUBO con protagonista Barbara Steele nel ruolo di una indemoniata ninfomane che alterna truci delitti a lascive esperienze saffiche) e LA LUNGA NOTTE DI VERONIQUE di Gianni Vernuccio, pellicola low-budget, misconosciuta (e di difficile reperimento) e povera in ogni senso, dagli interpreti semi-professionisti a uno script che ricalca la solita vicenda dello spirito inquieto che ritorna dall’altro mondo per tormentare la discendente di turno.

Proprio quando il genere sembra ora davvero destinato a spegnersi (il pubblico comincia ad avvertire una certa saturazione in riguardo) ancora una volta tocca a Mario Bava e alla sua genialità trovare la chiave di volta per tornare ad emozionare, stupire e, ovviamente, terrorizzare.

OPERAZIONE PAURA, già emblematico nel titolo, rappresenta il tentativo (riuscito) da parte dell’autore di concentrare l’attenzione della sua arte sull’essenza stessa del cinema horror: la paura. Ciò che scaturisce da questa “riflessione” è un vero e proprio manifesto, una codificazione aggiornata e personale degli stilemi del cinema gotico dell’ultima decade.

Bava, che nel frattempo si era concesso una escursione nel thriller puro con quel capolavoro titolato SEI DONNE PER L’ASSASSINO con cui, di fatto, reinventa il genere giallo introducendo il concetto di body-count, torna nel campo del fantastico più totale, esplorando a suo modo il territorio del sovrannaturale e della superstizione popolare, con quell’atteggiamento volutamente ambiguo ed ingannatorio, sempre al confine tra la contestualizzazione reale della vicenda e quella irreale dell’enigma, che ne costituisce la poetica.

Veicolo di questo viaggio nella paura è l’ormai cliché tipico del classicismo gotico ottocentesco post-romantico: una storia di fantasmi dove i fantasmi (all’inizio solo suggeriti) alla fine esistono davvero e sono crudelmente intenzionati a mietere vittime. Un cliché che nelle mani di Bava non scade nella banalità ma si rinnova riuscendo persino a stupire: questa volta, infatti, la rappresentazione del Male è affidata a un angelico viso di bambina e proprio l’infrazione di questo tabù (fino ad allora mai nessuno aveva accostato la malvagità assoluta all’innocenza per antonomasia, quella dell’età infantile) diventa un’intuizione che farà parecchi proseliti (Fellini omaggerà questa scelta nell’episodio “Toby Damnit” in TRE PASSI NEL DELIRIO, Cronenberg ha affermato di aver pensato al film di Bava quando gli venne l’idea di raffigurare il male con le fattezze di bambino in BROOD – LA COVATA MALEFICA).

Squisita e serrata storia macabra, diretta con uno stile inconfondibile e rivoluzionario, il film gioca con lo spettatore, tenendolo sul chi va là per tutto l’arco della narrazione: ogni singolo fotogramma è infatti intriso da una costante, rarefatta tensione di fondo che assurge a momenti di autentica suspense quando il regista dà libero sfogo alle sue pulsioni creative inserendo nella narrazione sequenze surreali ed oniriche, vorticose scalinate come vorticose spirali di un incubo nell’incubo, di un subconscio pauroso ed oscuro sepolto nei meandri del nostro essere. L’inseguimento che Giacomo Rossi Stuart ha con un altro sé stesso su per una scala a chiocciola che non sembra finire mai è l’emblema della paura che avvolge a 360° tutti i protagonisti della vicenda in una spirale che non lascia via di scampo. Dal punto di vista tecnico, Bava torna a uno uso meno sperimentale delle luci: l’utilizzo di tonalità più classiche, come il giallo e l’arancione, e di luci sfocate è funzionale allo scopo di supportare la narrazione con una fotografia che trasudi afa, asfissia, insostenibilità. Giacomo Rossi Stuart (che qui si muove con toni allucinati e con carattere d’immedesimazione pressoché ideale nel personaggio) e una giovanissima Erika Blanc (che rivista oggi merita un plauso per la sua ammirevole caratterizzazione) sono i bravi protagonisti di un mondo fantastico completamente autonomo e sensato e, proprio per questo, terrorizzante.

OPERAZIONE PAURA rappresenta, per usare una metafora ciclista, la cima del gran premio della montagna, scollinata la quale c’è solo la discesa, il declino. E infatti gli ultimi anni dei sixties ravvisano alcuni tentativi di proseguire con un filone che, in realtà, aveva già detto tutto.

Perché le idee diventano, nel giro di pochi anni, cliché, soprattutto se affidate a registi inesperti e spesso poco dotati dal punto di vista stilistico e quella che era divenuta una via peculiare e particolare grazie alla radicalità estetica e poetica di alcuni grandi autori si stava ora rivelando un percorso senza più vie d’uscita. Nel tentativo di spremere fino all’ultima lira il fenomeno horror (e nell’attesa di un nuovo “messia” che portasse cambiamento e innovazione) tra il 1967 e il 1969 escono alcuni titoli decisamente di basso livello, frutto in particolare di una collaborazione produttiva fra Italia e Spagna che vedrà dare alla luce pellicole come MALENKA (1968) di Armando De Ossorio (film vagamente ispirato a PER FAVORE NON MORDERMI SUL COLLO di Polanski che vede la solita giovane ereditiera, una comunque conturbante Anita Ekberg, fare proprio il vecchio maniero di famiglia infestato dallo spirito della antenata vampira Malenka) oppure PAROXISMUS (1969), in cui una ragazza violentata e uccisa da un gruppo di sadici rivive grazie a un trombettista medium e si vendica degli assassini in una orgia di sangue e crudeltà, e IL TRONO DI FUOCO (1969), dove si narra la vicenda sanguinaria di un feroce giudice inquisitore e torturatore di giovani, presunte streghe (evidente l’influenza de IL GRANDE INQUISITORE di Michael Reeves con Vincent Price), entrambi diretti dal grande Jess Franco. Film poveri sotto ogni punto di vista, più interessati a disvelare le grazie femminee delle conturbanti attricette protagoniste che non a offrire convincenti soluzioni narrative e visive.

Della stessa risma gli italianissimi LA STREGA IN AMORE (1967) di Damiano Damiani e LA BAMBOLA DI SATANA (1969) di Ferruccio Casapinta. Il film di Damiani è un melodramma a tinte scure in cui un giovane scrittore squattrinato accetta di lavorare come bibliotecario per una vecchia signora. Si invaghirà di una giovane donna (Rosanna Schiaffino) per poi accorgersi che la bella innamorata altri non è che la vecchia padrona di casa, in possesso di poteri magici che le consentono di vivere una doppia vita. Tra i punti più bassi della filmografia di un autore che occuperà un ruolo importante nella cinematografia di genere, in particolare nel filone del noir-poliziesco e del cinema di impegno civile, LA STREGA IN AMORE è pellicola decisamente priva di suspense e pathos, risolvendosi in un lungometraggio denso di dialoghi, tempi morti e inutili attese per qualche momento di tensione che in realtà non arriverà mai.

Ancora peggio il film di Casapinta in cui per l’ennesima volta assistiamo alle peripezie paurose di una bella e disinibita ereditiera (Erna Schurer) insidiata da una fantasma che in realtà poi si rivelerà essere il fasullo strumento di un bieco imbroglio. Pellicola e cast da serie Z, non c’è altro da aggiungere.
Fortunatamente, dopo una serie abbastanza deprimente di “patacche”, spunta qualche vera pepita.

Nel 1967 tre grandi cineasti (Federico Fellini, Roger Vadim e Louis Malle) si prestano, per una volta, al genere horror dirigendo un film a episodi, TRE PASSI NEL DELIRIO, in cui ciascuno dei capitoli si ispira ad alcune opere di Edgar Allan Poe. In realtà la produzione aveva in mente di realizzare un vero e proprio kolossal horror, precettando per l’operazione altri fenomeni del calibro di Orson Welles, Joseph Losey, Claude Chabrol e Luchino Visconti, ma poi a causa di non meglio definiti problemi di carattere monetario si decise di ridurre a tre i capitoli della pellicola.

Il primo episodio, “Metzengerstein”, è affidato a Vadim e vi si narra la vicenda di una contessa (Jane Fonda) che provoca la morte del cugino (Peter Fonda) in un incendio da cui si salva solo un cavallo, lo stesso equino che condurrà alla identica sorte la sventurata aristocratica. Vadim sceglie di costruire i meccanismi della paura attraverso il contrasto visivo e cromatico tra gli esterni rurali (solari e colorati) e gli interni lugubri e soffocanti del castello riuscendo nel suo intento; purtroppo la caratterizzazione dei personaggi è carente così come la coreografia delle sequenze più erotiche (le orgiastiche libagioni della dissoluta contessina).

Il secondo capitolo, “William Wilson” è diretto da Louis Malle e interpretato da un eccellente Alain Delon (nel ruolo di un militare austriaco costretto a lottare con il suo doppel-ganger che ne causerà la morte tramite suicidio) che raccoglie sulle sue spalle le sorti dell’intero passaggio narrativo con una caratterizzazione maligna, altezzosa, arrogante e suadente al tempo stesso.

Infine Fellini firma l’ultimo paragrafo, “Toby Damnit”, decisamente il migliore dei tre in cui un giovane attore alcolizzato (Terence Stamp) si reca a Roma per girare un film, ma nella capitale non troverà fortuna bensì la morte a opera del Maligno che gli si presenta sotto le mentite spoglie di una funerea bambina. Decisamente ispiratosi a OPERAZIONE PAURA di Mario Bava nella costruzione iconografica della diabolica infante, Fellini realizza un piccolo ma sofisticato meccanismo della paura, in cui un uso dosato di accorgimenti scenografici “classici” (notti oscure, cieli plumbei, nebbie fitte, temporali scroscianti) mostrano una Roma molto diversa da quella che, fino ad allora, era stata spesso rappresentata al cinema.

Un anno dopo lascia la sua firma anche un altro autore di peso del nostro cinema, Elio Petri, che dirige UN TRANQUILLO POSTO DI CAMPAGNA. Libero adattamento del racconto “La bella adescatrice” di Oliver Onions, il film racconta la storia dell’alienazione psichica di un giovane artista, perseguitato da incubi violenti e deliri sadomaso che lo portano ad ammazzare la sua compagna, identificata come causa suprema del proprio turbamento interiore. Per sfuggire al rimorso dell’atto delittuoso il giovane si rifugia nella campagna veneta dove verrà perseguitato dal fantasma di una donna del luogo, uccisa anni prima da un maniaco sessuale. Tra visioni oniriche, sedute spiritiche, una spruzzata di erotismo, Petri è bravo nell’orchestrare un crescendo di follia, una spirale di devastazione mentale, un lungo viaggio verso la perdizione assoluta che non risparmierà la vita al giovane pittore.

Chiudiamo la nostra lunga ed esaustiva rassegna con l’ultima pellicola ufficialmente collocata negli anni sessanta, CONTRONATURA (1969) per la regia di Antonio Margheriti. Ambientato nell’Inghilterra del periodo a cavallo tra le due guerre mondiali, la trama vede un gruppo di notabili dell’alta società, legati tra di loro da rapporti di parentela ma anche da torbide relazioni sessuali, costretti a rinchiudersi in una villa per sfuggire alla furia delle intemperie. Nella magione trovano due misteriosi individui che li coinvolgono in una sorta di viaggio nel tempo alla ricerca dei loro peccati e dei loro ricordi, portando due degli ospiti a confessare un tremendo delitto di cui furono incolpati due innocenti. Alla fine si scopre che i due misteriosi medium altri non sono che gli spiriti dei due condannati a morte tornati dall’aldilà per compiere la loro terrificante vendetta. Margheriti riprende le icone chiave del classicismo gotico italiano: ossessioni e desideri, peccati e senso di colpa, avidità e tradimenti, un erotismo inquietante e perverso, il tutto calato in una ambientazione volutamente claustrofobica su cui regna sovrano il destino, vero giudice incontrastato delle sorti di ogni individuo, giusto o colpevole che sia (e infatti, nel finale, l’alluvione purificatore che spazza via la casa infestata non fa sconti a nessuno).

Pur nella sua validità intrinseca CONTRONATURA rappresenta la fine di un epoca di cinema, una sorta di canto del cigno di un araba fenice, nel senso che nella decade successiva l’horror italiano, come vedremo, non morirà ma anzi saprà risorgere dalla spirale di refrain e dejà-vù in cui era caduto negli ultimi anni, abbandonando i topoi narrativi del gotico e del fantastico per lasciare il posto a generi contaminati da quegli archetipi ma sempre più indirizzati verso il thriller. Gli anni settanta diverranno infatti terreno di mutazione e sperimentazione anche per la cinematografia dell’orrore. Ciò che ne scaturirà sarà una sarabanda di pellicole in cui la paura tornerà a confrontarsi essenzialmente con il reale, il quotidiano e l’epicentro di ogni forma di malvagità sarà indiscutibilmente l’uomo.

Vampiri, licantropi, streghe e scienziati folli vengono esautorati lasciando la scena a favore di altre icone del terrore, molto più moderne e a loro agio in un contesto di progresso tecnologico sempre più in crescita: serial killer, alieni venuti dallo spazio, zombies. Mutano i protagonisti e cambiano anche gli ambienti: cantine segrete e lugubri castelli non trasmettono più quell’emozione intensa che li caratterizzava solo dieci anni prima, ora la paura vive in contesti urbani e metropolitani, molto rarefatti, e la morte può cominciare a colpire chiunque in ogni momento.

Sarà una stagione molto intensa, ricca di grandi sperimentazioni ed intuizioni geniali che contribuirà in maniera determinante al farsi scuola del nostro cinema dell’orrore.

FILMOGRAFIA

  1. L’ULTIMO UOMO SULLA TERRA (1964) di Ubaldo Ragona
  2. TERRORE NELLO SPAZIO (1965) di Mario Bava
  3. AMANTI D’OLTRETOMBA (1965) di Mario Caiano
  4. LA VENDETTA DI LADY MORGAN (1965) di Massimo Pupillo
  5. 5 TOMBE PER UN MEDIUM (1965) di Massimo Pupillo
  6. UN ANGELO PER SATANA (1966) di Camillo Mastrocinque
  7. LA LUNGA NOTTE DI VERONIQUE (1966) di Gianni Vernuccio
  8. OPERAZIONE PAURA (1966) di Mario Bava
  9. MALENKA (1968) di Armando De Ossorio
  10. PAROXISMUS (1969) di Jesus Franco
  11. IL TRONO DI FUOCO (1969) di Jesus Franco
  12. LA STREGA IN AMORE (1967) di Damiano Damiani
  13. TRE PASSI NEL DELIRIO (1967) di Federico Fellini, Roger Vadim e Louis Malle
  14. UN TRANQUILLO POSTO DI CAMPAGNA (1968) di Elio Petri
  15. CONTRONATURA (1969) di Antonio Margheriti

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