Recensione film Book of Blood

Book of Blood

Il naturale senso di elettrica attesa che monta nelle prime battute della pellicola perde presto tutto il proprio carico esplosivo quando ci si rende conto che Book of Blood ha una certa qual forma barkeriana nelle intenzioni ma ne è priva della sostanza fondante.

Secondo una certa corrente di pensiero, la nostra realtà è segretamente attraversata dalle cosiddette highways, punti di incontro tra il nostro mondo ed il regno dei morti, zone franche dove le due dimensioni, toccandosi, rendono possibile la trasmigrazione degi rispettivi abitanti dell’una nell’altra e viceversa e dove, banalmente, tutto può succedere.

Simon McNeal (Jonas Armstrong) è un giovane medium e sensitivo, un individuo in grado di mettersi in contatto con l’altro mondo. Esattamente il tipo di persona di cui è alla ricerca Mary Florescu (Sophie Ward), un’esperta del paranormale impegnata in un’investigazione riguardo una presunta casa stregata ed un orribile delitto perpetrato tra le sue mura. Forte della cieca fiducia e della malcelata attrazione fisica che Mary manifesta nei suoi confronti, sin dalle prime battute dell’inchiesta Simon non fa che simulare ogni sua esperienza paranormale, almeno finchè le presenze che sembrano infestare quell’inquietante abitazione non danno veramente prova della propria esistenza. Un’esistenza manifestata e documentata da ogni centimetro del corpo di Simon, la cui superficie finisce per essere completamente ricoperta da parole e storie incise nella carne viva, tasformando il giovane in un ricettacolo vivente di storie d’orrore e sofferenza, un vero e proprio Book of Blood.

Era scontato che per il primo e narrativamente fondamentale capitolo di quell’enorme, più o meno organico progetto che dovrebbe vederlo portare sul grande schermo una selezione nemmeno troppo ridotta dei suoi sei Books of Blood – aspettatevi a breve-medio termine Dread e Pig Blood Blues – l’instancabile Clive Barker si affidasse a quello che nei fatti si è sempre dimostrato un affidabile, esperto e multiforme personaggio del sottobosco horror sin dai primi anni Ottanta, quel John Harrison già attore, compositore e sceneggiatore, decisamente più schierato nella fila dei professionisti esemplari che in quelle dei registi dall’ego ingombrante e dall’inconfondibile personalità. Narrativamente fondamentale perchè nella sua originale versione cartacea Book of Blood funge da vero e proprio benvenuto – a livello sia narrativo e tematico – a quell’inferno ribollente sofferenza, desiderio, paura ed umana imperfezione che sono i sei volumi dei Libri di Sangue, una vera e propria summa, in questo senso, della cifra stilistica di un Clive Barker a briglia decisamente sciolta nell’affrontare quelle tematiche storicamente a lui tanto care. Giusto quindi affidarsi ad un Harrison quasi d’annata, in grado di far calare sulla pellicola una bruma leggera ma persistente che ha tanto il sapore di certe produzioni antologiche anni ’80/primi ’90 e che inevitabilmente tradisce la formazione del regista alla scuola targata Tales From the Crypt ed affini. Uno stile appena rimodernato ma che da quella tradizione attinge a piene mani, dalle scelte cromatiche della fotografia ad una ritmicità della narrazione controllata, mai troppo sostenuta o spinta, alle perentorie fiammate gore in trucco rigorosamente prostetico.

Ma se da un punto di vista puramente estetico e visuale la scelta sembra funzionare, è a livello di compattezza ed efficacia narrativa che il lavoro di Harrison va sfaldandosi, lento ma dannatamente inesorabile. Il naturale senso di elettrica attesa che monta nelle prime battute della pellicola perde presto tutto il proprio carico esplosivo nel momento in cui ci si rende conto che Book of Blood ha indubbiamente una certa qual forma barkeriana nelle intenzioni ma ne è priva della sostanza fondante: tutti quegli elementi così peculiari ed imprescindibili della grammatica dello scrittore di Liverpool e così ben definiti, quasi dichiarati e amalgamati nella controparte cartacea – l’eterna pulsione sessuale innervata di cupa morbosità, il ciclico processo di mortificazione delle carni, il dolore come forma privilegiata nella dialettica tra uomo e uomo, tra uomo e Altro – vengono semplcemente citati, innestati senza particolare perizia in una sceneggiatura che tradisce il suo stampo di banale ghost story. Il tutto seguendo quello che si dimostra un’atteggiamento decisamente troppo didascalico che, da colonne portanti di quella che dovrebbe essere la cifra più squisitamente letteraria della pellicola, li tramuta nei fatti in semplici elementi di eccentricità horror appena un po’ più bizzarri della media; ma se viene a mancare la potenza fondante del messaggio di Book of Blood, la sua straripante forza pittorica ed immaginifica, capace di subordinare a se tutto il resto e nascondere con la sua scura massa grondante dolore buona parte della effettiva banalità del plot, ciò che resta è decisamente un po’ pochino, e da un certo punto in poi addirittura noiosetto, per pretendere che funga da introduzione potente ed efficace e da spudorata dichiarazione d’intenti di un progetto cinematografico che Clive Barker ha deciso di affrontare con l’ormai consueto coinvolgimento diretto. Più falsa partenza che passo falso pieno, Book of Blood nei fatti fallisce la delicata missione che le era stata affidata: quella di iniziare con cattiveria e ed ispirazione giuste un progetto tanto ambizioso quanto lodevole, riuscendo magari a portare sul grande schermo quello spirito e quell’estetica del Male come fin’ora solo il suo legittimo creatore è riuscito a fare.


Book of Blood (USA, 2008)
Regia: John Harrison
Sceneggiatura: Clive Barker, John Harrison
Interpreti: Jonas Armstrong, Sophie Ward, Clive Russell, Paul Blair
Durata: 96 min.
Distribuzione: Essential Entertainment

About Andrea Avvenengo
E’ nato nel terrore spiando Twin Peaks alla TV. Il tempo ha messo in fila passioni su passioni, raffinando (o imbarbarendo?) i gusti, ma senza mai scalfire la capacità del cinema fantastico di scaraventarmi indietro nel tempo, la mani davanti agli occhi, terrorizzato e fottutamente felice.

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