Cinema The Possession (Dibbuk Box)

The Possession (Dibbuk Box)

Gli oggetti hanno un’anima… e talvolta è quella sbagliata. Il nuovo film prodotto dalla Ghost House di Sam Raimi in arrivo anche nei cinema italiani.

Se si parla di scatole contenenti demoni si pensa subito ai cenobiti, a Clive Barker e a tutte quelle volte in cui guardando un capitolo a caso della saga di Hellraiser abbiamo pensato, da morbosi voyeristi, egoisti, sadici e compassionevoli quel tanto che basta, a quanto sia bello non aver mai avuto fra le mani quella specie di cubo di Rubick. Nella pellicola che andiamo a presentare, il tòpos dell’oggetto maligno, del soprammobile portatore di sventura, gode del rafforzativo della leggenda urbana.

Tratto da fatti realmente accaduti” è una formula consolidata di presentazione di una serie infinita di pellicole horror per cui, di primo acchito, si potrebbe pensare alla solita campagna pubblicitaria inflazionata e banale. Eppure, questa volta, pare che ci sia molto di vero nella storia da cui The Possesion trae spunto. Andiamo per gradi. Il titolo originale del lungometraggio è Dibbuk Box, poi mutuato nel più immediato The Possesion. Dibbuk è un demone del folklore ebraico. La tradizione vuole che sia lo spirito di un’anima incompiuta, o meglio incapace di compiere per intero il suo percorso in vita e che, attraverso la possessione di un corpo, voglia riscattarsi, avere una seconda possibilità. Inoltre, secondo la tradizione della terra d’Israele, il dibbuk può talvolta scegliere di lasciare il corpo posseduto sua sponte, una volta terminato il compito interrotto durante la vita terrena. Nel 2004 una scatola in legno, costruita  per contenere delle bottiglie di vino, fu venduta su eBay e passò nelle mani di almeno quattro o cinque famiglie americane. I possessori dell’oggetto testimoniarono con incredibile sicurezza di aver vissuto, durante i giorni di permanenza della scatola nelle loro case, momenti di angoscia e sventura, piccole e grandi disgrazie, incubi terribili e pressoché identici in tutte le situazioni oltre a visioni comuni di una donna anziana piangente lacrime di sangue accompagnate da un fetido e persistente odore di urina di gatto. Al tempo fu creato addirittura un blog, ora scomparso, in cui si seguiva puntualmente il percorso della dibbuk box lungo le strade d’America. Il primo possessore, un piccolo collezionista di nome Kevin Mannis, sostenne di averla comprata dalla pronipote di una donna polacca sopravvissuta all’Olocausto, la quale, insieme ad altre donne, fece una sorta di  seduta spiritica nel ghetto di Lodz nel 1938, al fine di imprigionare in una scatola il dibbuk invocato in precedenza. L’oggetto giunse negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale e rimase chiuso per oltre sessant’anni. Alla morte della donna nel 2001, la pronipote ed erede decise di disfarsi del funesto porta vino vendendolo all’asta. Mannis fece dei tentativi per restituire la scatola all’anziana polacca ma fu tutto vano e fu costretto così anch’egli a disfarsene attraverso la rete. Questi i fatti, testimoniati da diversi articoli del L.A. Times, prestigiosa testata californiana. Il tutto è quanto meno inquietante e degno di un sontuoso trattamento da parte di Bossari, Pinketts, Barale e compagnia bella.

Veniamo al film. Clyde e Stephanie sono i genitori di Em e Hannah, conducono una vita tranquilla e sembrano essere una coppia molto solida. La loro vita muta radicalmente quando la piccola Em porta a casa un singolare cimelio acquistato al mercato delle pulci del quartiere, una scatola in legno di provenienza europea e datata inizio Novecento. La bambina in breve tempo adotta comportamenti anomali, eccentrici e ossessivi mentre i coniugi avvertono un male indescrivibile volto a separarli e a minare il loro legame. Solo la scoperta della vera natura dell’oggetto permetterà alla famiglia Brenek di combattere il male che li affligge attraverso un’alleanza affettiva ed un consolidamento dei rapporti reciproci. Scritto dalla ormai collaudata coppia di sceneggiatori Juliet Snowden e Stiles White, già insieme in Boogeyman del 2005 e Segnali dal futuro del 2009, The Possesion può fregiarsi della direzione di un maestro come Ole Bornedal, pluripremiata firma di Nattevagten (1994) e del suo remake americano Nightwatch (1997). Bornedal è eclettico, raffinato, misurato ma mai scontato, possiede la capacità del cambio di ritmo e dell’uso sapiente degli ambienti, spesso rarefatti, congestionati e congestionanti. I Am Dina (2002) è forse il suo capolavoro. Grande cast e grande produzione internazionale. Un dramma sobrio ed asciutto. Da vedere. Bornedal è una garanzia o quasi, per tale ragione The Possesion parte col piede giusto. Aggiungiamo inoltre che la produzione è affidata alla Ghost House di Sam Raimi supervisionata dalla Lionsgate, una indubbia collaborazione di sostanza. La casa di produzione di Sam Raimi ha dato vita a ottimi lavori come 30 Giorni di Buio (2007, David Slade) e soprattutto Drag me To Hell, diretto dallo stesso Raimi nel 2009, film brillante e ben congegnato la cui cover ricorda moltissimo quella di The Possesion. Va detto in vero, che la saga di The Grudge e quella di The Boogeyman, prodotte entrambe da Ghosthouse, non sono irresistibili in tutti i loro capitoli ma, c’è da giurare, il vecchio Sam vorrà riscattarsi fin da subito proprio con il lungometraggio di Bornedal e con i nuovi capitoli della strepitosa serie Tv Spartacus, fin qui impeccabile. Nel cast troviamo volti più o meno noti come Jeffrey Dean Morgan, il Commediante di Watchmen (2009, Zack Snyder) tanto per capirci, Kyra Sedwick, protagonista della serie Tv The Closer, oltre alle giovani Madison Devenport, già vista in Parasomnia (2008, William Malone) e Natasha Calis, qui nel ruolo della piccola posseduta Em dopo la partecipazione al bel Donovan’s Echo di Jim Cliffe (2011).

The Possesion va a inserirsi di buon grado nel filone dei lungometraggi legati alla tematica della perdita di controllo, del male come virus esoterico improvviso, capace di cogliere impreparati in una sorta di lotteria nella quale nessun anima è salva a priori. Sarà forse la metafora dei nostri tempi, privi di certezze, eppur incapaci di risvegliare una coscienza religiosa, effimeri e disperatamente alla ricerca di una qualsivoglia morale, sarà la povertà di soggetti, in qualunque modo la si voglia leggere, la tematica della possessione vive una stagione di straordinaria recrudescenza. Desta curiosità la storia dalla quale il film di Bornedal è ispirato ma soprattutto quanto sarà influente l’approccio raimiano alla struttura narrativa ed alla caratterizzazione dei personaggi. Il tocco ironico e grottesco, irresistibile e caratteristico di Evil Dead (1981) e Drag Me To Hell (2009) la farà da padrone o assisteremo ad un cambio di rotta più affine allo stile scandinavo del regista Bornedal? Ne sapremo qualcosa di più col trailer, non ancora disponibile in rete. Nel frattempo ci consoliamo con le prime immagini. Senza scommettere.. a scatola chiusa.

About stefano paiuzza
Appassionato d'horror da tempi recenti ma affascinato dalla paura da sempre. Ama in particolar modo il cinema europeo ed extra hollywoodiano in genere. Sogna una carriera come critico cinematografico e nel frattempo si diletta tra letture specifiche e visioni trasversali. Lavora a stretto contatto con la follia o forse è la follia a lavorare su di lui. Se fosse un regista sarebbe Winding Refn, uno scrittore Philip Roth, un animale una tartaruga. Ha pronto uno script per un corto ma non lo ha mai fatto leggere. Citazione preferita: "La dittatura è dentro di te" Manuel Agnelli.

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