Approfondimenti Le parole del buio – Tecniche di scrittura #1

Le parole del buio – Tecniche di scrittura #1

Tutti abbiamo avuto paura, nella vita. A volte per motivi futili, a volte a ragione. È comunque uno stato d’animo che incide nel nostro profondo tracce difficili da dimenticare. Proprio per questo motivo, scrivere per generare paura è difficile.

CAPITOLO 1

Ognuno di noi ha la propria personale piaga, sensibile al tocco delle parole. Compito dello scrittore dell’orrore è trasformare le sue piaghe in ferite comuni, facendo leva su meccanismi che vengono, il più delle volte, consciamente rifiutati. Fare paura con le parole è difficile, dicevo, tanto più oggi, in quanto i lettori sono smaliziati: cinema e reale ci hanno abituato a terrori “evoluti”, e hanno sviscerato ogni tipo di archetipo junghiano. Pertanto, se volete scrivere narrativa dell’orrore, dovrete per prima cosa, e scusate la tautologia, padroneggiare la scrittura.

Ecco, penseranno subito alcuni di voi, di cosa dobbiamo parlare: di quell’attività affascinante e pericolosa che tramuta pensieri a volte appena accennati in cumuli di bit o vergati sentieri d’inchiostro, nei quali, come per incanto, ciò che volevamo dire, ciò che volevamo raccontare, compare compiuto e definitivo, lasciandoci soddisfatti ed esausti ad ammirare cotanto frutto del nostro ingegno. Bene, spazzate via queste cazzate dalla vostra mente, prima di affrontare il foglio bianco : non c’è nulla di più defatigante, spesso noioso, quasi sempre deludente, rispetto a dovere mettere, nero su bianco, ciò che nella vostra testa sembra così straordinariamente lineare da non avere possibilità di fallimento alcuno. Scrivere è bello, su questo non ci piove, ma scrivere non è facile. Esclusi alcuni geni, davanti ai quali possiamo provare solo un’attonita meraviglia, per tutti gli altri scrivere è spesso più simile a una condanna di Sisifo, piuttosto che una simpatica passeggiata sui dolci declivi della letteratura.
Lavoro, sudore e nel nostro caso, sangue: ecco gli ingredienti base dello scrivere.

L’idea, il colpo di genio, la musa che volteggia alle nostre spalle, pronta ad accarezzarci con le sue ali leggiadre (o di pipistrello, visti i luoghi che frequentate…), insomma, quella cosa che va sotto il nome di ispirazione esiste, certo, ed è fondamentale, ci mancherebbe: però, come viene spesso ripetuto, “Scrivere è per il 5% ispirazione e per il 95% traspirazione”. Sudate, gente, sudate: nel nostro caso, traducetelo come scrivete, gente, e riscrivete; qualche risultato l’otterrete.
Certo, il lavoro diventa addirittura massacrante se si vuole scrivere un romanzo, ma vi assicuro che non manca neppure se l’oggetto dei propri sforzi letterari è un racconto.
Quand’è che l’ispirazione serve? Ma che diammine, all’inizio, è ovvio.

Da dove parte quel leggero prurito che vi infastidisce la base del cranio quando siete al volante dell’auto o davanti alla professoressa di matematica, e nel vostro cervellino comincia a farsi strada quella piccola luce che conferisce al vostro sguardo quell’espressione così dolcemente beota, mentre un universo di situazioni, personaggi, ambientazioni comincia a delinearsi in nuce, e piccoli orgasmi letterari schioccano felici nelle vostre ossa? Parte da lì, da quella zona del vostro agglomerato neurale che è deputata a creare le storie. Siete all’inizio del viaggio.
L’inizio, in ogni caso, è importante. Direi quasi fondamentale. Chi scrive, di solito, lo fa per essere letto. Esistono casi, è ovvio, che non prevedono questa possibilità, ma essendo questo un piccolo excursus di tecniche di scrittura, rivolte essenzialmente al racconto, e non un corso di diariotologia, tenderemo a non considerarli affatto. Quale miglior modo di essere letto se non avvincere immediatamente il lettore con una frase ad effetto? Tenete presente che il lettore in questione potrebbe essere quello della casa editrice alla quale avete spedito il vostro racconto, e che da quell’inizio potrebbe trovare stimolo e voglia di sprecare alcuni dei suoi preziosissimi minuti per proseguire con la lettura, invece di iniziare la dolorosa attività di rifilamento dell’unghia dell’alluce che lo attrae già da qualche giorno.

Certo, avvincere è una cosa che presenta i suoi rischi: se altre parti del testo non avranno poi lo stesso effetto dirompente dell’inizio, dell’incipit, il lettore si sentirà ingannato, tanto più quanto più valida sembrava la partenza. Pertanto, primo consiglio (prendeteli come volete, questi consigli; come dice il Liga, “Ho messo via un po’ di consigli, dicono che è facile; li ho messi via perché a sbagliare sono bravissimo da me”) piuttosto che avvincere, meglio convincere. Dovete prendere il vostro lettore per la bocca dello stomaco: voi scrivete horror, pertanto avete un pubblico che sa già cosa può aspettarsi, ed è pronto a darvi fiducia. Cercate di non tradirla, trovando rifugio nella banalità. Molto è già stato scritto, ma non tutto: partire con questa convinzione vi renderà forti.

Non abbiate paura di sbattere sul foglio la prima frase che vi passa per la testa: la vostra mano sa cose che voi neppure immaginate (leggete “Libertà agli oppressi”, presente nell’antologia Infernalia, editore Sonzogno, un racconto di quell’illuminante bibba dell’horror conosciuta come la serie dei “Libri del sangue” di sir Clive Barker, se non ci credete!)
Ognuno ha il proprio sistema di lavoro, questo è ovvio.
Ci sono autori che si impegnano in un estenuante lavoro di scalettatura e di preparazione di schede sui personaggi e sulla trama, prima di iniziare a mettere sulla carta la prima riga del loro lavoro, che poi non è detto che diventi la prima che sarà letta (no, non deliro: abbiate pazienza…).
Voi siete sicuri di volervi impegnare in un lavoro estenuate di scalettatura della trama, di definizione dei personaggi, di verifica della credibilità dell’ambientazione, di plausibilità?
Pensateci bene: se questo non è il vostro metodo di lavoro ideale, l’adottare questa tecnica (peraltro consigliata da diversi manuali di scrittura creativa) potrebbe ben presto condurvi a vicoli ciechi, e a trasformare la scrittura da attività divertente ad altro lavoro.
Un altro consiglio: non tergiversate quando siete all’inizio, quando la benedetta ispirazione vi folgora, ma prendete in mano la penna o accendete il computer ed iniziate a scrivere e badate bene.
Ricordate: non vergognatevi mai di quello che scrivete.

L’inizio

Quando cominciate a scrivere, voi vi state impegnando. Impegnando non nel senso di applicarvi nella scrittura, ma nel senso che state facendo una promessa. In pratica , voi dite:
Caro lettore, eccomi qui, con la mia storia da raccontare. Ascoltala, ne varrà la pena, e il tuo sarà tempo speso bene.”.

Il tempo è prezioso, e non vale la pena di sprecarne neppure una briciola in un racconto che parte con grandi promesse ma poi va a naufragare in un mare di banalità, di luoghi comuni e di stereotipi.
La voce, la vostra voce è importante, e deve sentirsi forte e chiara fin dalle prime righe: ricordate che state scrivendo un racconto, queste poche chiacchierate non hanno di certo lo scopo di farci scrittori di romanzi bestseller, e un racconto è un elaborato da cinque a quaranta, cinquanta cartelle al massimo (per chi non lo sapesse, una cartella è un foglio battuto con sessanta colonne per trenta righe con interlinea 2, un totale di circa 1800 caratteri): non avete troppo spazio per permettervi approfondimenti eccessivi sui personaggi, descrizioni ridondanti e prolisse.
Non disprezzate il formato narrativo del racconto: come dice bene Mozzi nel libro “Parole private dette in pubblico”, edito da Fernandel, “… il racconto è più forte del romanzo perchè, nel suo assaggiare il mondo, può essere molto più radicale, mordere più vicino alle radici.
Per caratterizzare efficacemente un inizio, di solito, bastano poche, incisive parole: nel suo romanzo breve “Il giorno dei dinosauri”, uscito su Urania n.1224 e poi ripubblicato per Einaudi, nella defunta collana Vertigo, Joe R. Lansdale inizia così:

da 'Il giorno dei dinosauri'

Un giorno, d’improvviso, uno si trova ad avere finito le scuole superiori, felice come un bruco nella cacca; si sveglia con l’uccello duro, passa le giornate seduto con le mutande macchiate di piscia e i piedi appoggiati sopra la bocchetta del condizionatore, con l’aria fredda che gli soffia sulle palle, e la prima cosa che gli succede è che viene crocefisso.
E non intendo metaforicamente. Parlo di chiodi nelle zampe e schegge di legno nel culo, piaghe alle mani e ai piedi, urla e la fiducia nella razza umana che vacilla. È il genere di cosa che quando ti capita fai fatica a credere che il vecchio Gesù potesse perdonare tanto facilmente.
Fa male.
Fossi stato G.C., sarei tornato dal regno dei morti più incazzato di un tasso con le balle in fiamme, e non ci sarebbero state tante stronzate di pace-e-amore, né avrei pensato a stupidaggini tipo cambiare l’acqua in vino o moltiplicare pani e pesci. Mi sarei fatto grande come l’universo, mi sarei fatto due mattoni delle dimensioni giuste, avrei sistemato il mondo fra i mattoni, e wham, una bella poltiglia.”

Fulminante, eh?
Un tono alla Giovane Holden riveduto e corretto da un po’ di adolescenziale turpiloquio e via di corsa, verso La Storia che Aspetta Solo di Essere Narrata. La giornata per Jack, il protagonista, continua a non essere delle migliori, sebbene i dinosauri del titolo siano ancora da preferire al Re del Popcorn.
Con un inizio del genere la promessa al lettore è del tipo: “Respira profondamente, perché adesso ti lancio in una folle corsa nei meandri oscuri della mia fantasia e ti toglierò il fiato.”
Si capisce, del resto, che un’analisi di un testo con un inizio di questo genere difficilmente si presta ad una disamina critica con criteri prettamente letterari: analessi, prolessi, dislocazioni marcate e deittici, anafore, nel nostro caso sono ciò sembrano, ossia parole prive di senso. Il racconto valido è quello che ci afferra alla bocca dello stomaco e che ci ritorna in mente la sera quando spegniamo la luce. Punto.
Possiamo imparare qualcosa da un inizio del genere? Certo che possiamo.
Innanzitutto, questo inizio ci dice che qualcosa è già accaduto. Il protagonista, la voce narrante che parla, fa riferimento a una successione di avvenimenti che prima non troviamo da nessuna parte. È il classico inizio in medias res. Catapulta direttamente il lettore nel bel mezzo dell’azione.
È un sistema efficace per catturare l’attenzione fin dalle prime righe.

da 'L’età del desiderio'

L’uomo avvolto dalle fiamme si catapultò giù per gli scalini dei Laboratori Hume nel momento in cui la polizia, richiamata presumibilmente dall’allarme messo in funzione al piano di sopra da Welles o da Dance, si presentava al cancello e imboccava il viale d’accesso. Mentre lui usciva di corsa dalla porta, la macchina si fermava in uno stridore di freni davanti alla scalinata e scaricava i suoi occupanti.
Attese nell’ombra, troppo sfinito dal terrore per poter correre ancora, sicuro che sarebbe stato visto. Ma gli agenti scomparvero fra i battenti a molla senza nemmeno rivolgere uno sguardo verso di lui e il suo tormento. Ma sto davvero bruciando? si chiese.”

L’età del desiderio, il racconto di Clive Barker, anche questo presente nell’antologia Infernalia precedentemente citata, da cui è tratto questo inizio, è un altro esempio di inizio in medias res. Chi è l’uomo che brucia? Perché brucia? Sta veramente bruciando oppure cosa? E se brucia veramente, come fa a sembrare così tranquillo, perché non urla e chiede soccorso, perché non si rotola a terra urlando?
Fate che chi inizia a leggere il vostro racconto si ponga delle domande. Ponetevele anche voi, vi servirà. Dicono che la curiosità sia indizio di sicura intelligenza, e voi non siete degli stupidi, vero?
Un altro racconto, “Rottami” di Stephen Laws, inserito nell’antologia “Terrore!” a cura di Stephan Jones, Ed. Best Seller Newton, del 1996 inizia così:

da 'Rottami'

L’incubo cominciò un pomeriggio di un agosto caldo e soffocante. Mc Laren stava fuori del suo “ufficio” cadente, appoggiato alla carrozzeria arrugginita di una Ford Cortina, con la pancia piena di birra dopo una seduta di sbornia al pub dietro l’angolo. Stava lì da mezz’ora, a fumare uno dei sigari da poco prezzo che suo cognato gli portava regolarmente dalla Spagna. L’aroma scadente sembrava irradiare da lui ininterrottamente: dai suoi vestiti, dai capelli, dal respiro.
Dal suo punto di vista panoramico aveva una vista completa dell’intera discarica dalla quale traeva il suo sostentamento. Guardava Tony Bastable che manovrava il braccio della gru e faceva scendere rapidamente la grossa mandibola meccanica su un Austin Allegro di cui schiacciava il tettuccio come fosse stato di carta velina. Dava a Mc Laren un curioso senso di soddisfazione vedere l’auto schiacciata in quel modo.

In queste poche righe, noi vediamo tracciato perfettamente un personaggio e un’ambientazione.
Personaggio e ambientazione in questo caso quasi si compenetrano: l’uomo che vive dei proventi della discarica è a sua volta una discarica d’uomo, con i tratti laidi e odorosi che ci si aspetta esattamente in chi vive in mezzo ai rifiuti. Prima ancora di sentirlo parlare, sappiamo già che tono userà, e sappiamo anche quali parole sarebbero plausibili tra le sue labbra, e quali invece apparirebbero come un’indebita intrusione della voce del narratore. Sappiamo già che non importa qual è stata la sua vita a oggi: è l’incubo in cui sta per precipitare che ci interessa. Sappiamo, da queste poche righe, un’altra cosa: che questo incubo sarà strettamente legato alla discarica in cui vive, e più precisamente sarà da riferirsi alle macchine che vengono giornalmente stritolate dal tirannosauro d’acciaio. Qualcuno riesce già a sentire il sapore del sangue tra le lamiere? Ora, se invece il tizio del racconto venisse fatto fuori da un vampiro che incontra nel suo bar di sbornie, beh, sarebbe una bella delusione.

Se in una scena fai vedere un fucile, prima della fine quel fucile deve sparare.

L’inizio crea delle aspettative, sempre, e soprattutto in un racconto l’inizio fa delle promesse che poi devono essere mantenute.
Una vecchia regola delle scuole di scrittura creativa americana dice: “Se in una scena fai vedere un fucile, prima della fine quel fucile deve sparare”.
Questo non vale solo per la narrativa americana.
Ricordatevi, poi, voi che siete adepti di quella setta di chi scrive racconti horror, che la Storia deve avere un ruolo fondamentale. Lasciamo gli esperimenti meta-letterari ai soloni della penna: voi siete dei cantastorie, non degli accademici di Francia. Certo, questo non deve essere preso a giustificazione di una scrittura scialba: ci sono talmente tante persone che si buttano sulla carta, improvvisandosi come scrittori, che la prosa sciatta non manca di certo, anche in alcuni dei libri che magari trovate in vetta alle hit parade di vendita. Inventate la vostra scrittura: può sembrare facile fare il verso a Lovecraft, imitare la struttura della penna di King, a volte può sembrare persino un gesto d’omaggio a chi a saputo muovere certe corde nascoste del vostro animo, ma è sempre lo stile di qualcun altro, che voi copiate, e Loro hanno già scritto così e, ve lo assicuro, incomparabilmente meglio.
Meglio inviare un bigliettino con scritto banalmente “Ti amo”, che scopiazzare l’incarto dei Baci Perugina.
Un ultimo esempio:

da 'Il baubau'

Sono venuto da lei perché voglio raccontarle la mia storia” stava dicendo l’uomo sul lettino del dottor Harper. Si chiamava Lestre Billings, era di Waterbury, Connecticut. Secondo i dati annotati dall’infermiera Vickers, aveva ventotto anni, era impiegato presso una ditta industriale di New York, divorziato e padre di tre bambini. Tutti morti.
“Non posso andare da un prete perché non sono cattolico. Non posso andare da un avvocato perché non ho fatto niente per cui debba rivolgermi ad un avvocato. Tutto quello che ho fatto è stato di uccidere i miei bambini. Uno alla volta. Di averli uccisi tutti.”
Il dottor Harper mise in funzione il registratore.”

Tutto quello che ha fatto è stato di uccidere i suoi bambini? Tutto qui? La contraddizione tra l’azione descritta e l’apparente seraficità del protagonista non può non far scattare la molla che vi spingerà a divorare il racconto “Il baubau” del Maestro S.K., contenuto nell’imprescindibile antologia “A volte ritornano”, edita da Bompiani nella collana “I grandi tascabili”.
Che poi il nostro anti-eroe non abbia altra colpa di avere il terrore delle porte degli sgabuzzini socchiuse è cosa che gli perdoneremo facilmente, dopo aver letto il racconto.
Anche qui, comunque, notate l’inizio in medias res, che vi trascina immediatamente nella storia. Anche qui, in pochissime righe, abbiamo un quadro abbastanza preciso di chi sia il protagonista.
Certo, non sappiamo una miriade di cose, di lui, e non le sapremo neppure alla fine del racconto, ma siamo a conoscenza di quelle fondamentali.
Il fatto di non essere cattolico, ad esempio, può sembrare un particolare insignificante, ma così non è. Infatti, l’essere religioso presuppone perlomeno una minima fede a cose che trascendono la nostra possibilità di raziocinio, e pertanto la presenza di un’entità genericamente collegata al “male in sé” avrebbe una sua ragione d’esistere, e proprio nelle pratiche religiose che da secoli aiutano l’individuo a combattere tali nemici il protagonista avrebbe potuto trovare in qualche modo aiuto, facendo così cadere l’angoscia che invece il racconto trasmette, in quanto la presenza malefica non avrebbe avuto quell’effetto dirompente nella psiche di Lester Billings, effetto che viene così magistralmente descritto nel testo. Se Billings avesse creduto in qualcosa di metafisico, forse un bel esorcismo avrebbe fatto rimanere chiuse le porte degli sgabuzzini… e noi avremo perso un bel racconto.
Ricapitolando: la prima scena, il vostro inizio, dovrebbe catturare il lettore.
Per fare questo, deve avere i seguenti requisiti di base:

1l’immediatezza, ossia indicare subito che esiste un conflitto, un qualcosa che solo nella prosecuzione del racconto il lettore avrà modo di risolvere, la presenza di qualcosa di particolare, al di fuori della norma (la crocifissione nel brano di Lansdale, l’uomo in fiamme in quello di Barker, la parola incubo in quello di Laws, la triplice morte in quello di King)

2la prosa chiara e corretta, possibilmente semplice (semplice, che non vuol dire elementare né tanto meno raffazzonata) in quanto è la storia in un racconto dell’orrore ad avere la predominanza (lo stile serve? Ma certo che serve, ci mancherebbe: fa la differenza tra una scopiazzatura ed il vostro racconto, ma per trovare il vostro stile, beh, scrivete, scrivete, scrivete).

Ricordatevi poi la cosa fondamentale: non fate promesse che poi non siete in grado di mantenere.

About Giuliano Fiocco
Ha visto nascere Horror.it, e l’ha accudito per lungo tempo assieme ad Andrea. Adesso la vita gli lascia poco tempo per le passioni, ma in un angolo oscuro del cuore rimane in agguato la voglia di scrivere. Ha scritto un romanzo, da cui è stato tratto un film, in fase di produzione.

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