Cinema L’infinita stagione dell’orrore in soggettiva

L’infinita stagione dell’orrore in soggettiva

Grande invenzione la soggettiva. Colpo d’effetto dalla strabiliante portata. Rendere lo spettatore personaggio attivo, attore, permettergli di addentrarsi morbosamente nella scena dal suo stesso punto di vista è di quanto più geniale la settima arte abbia offerto.

Dal Napoleon di Abel Gance fino ai voli pindarici e psichedelici dell’Enter The Void di Gaspar Noè, la tecnica della presa diretta può tranquillamente considerarsi fra i più astuti orpelli in fatto di entertainment. Addentrarci in un’analisi approfondita di ciò che concretamente ha comportato l’utilizzo sfrontato del piano sequenza e delle sue derivazioni iper veriste, fondamentalmente rivolte all’architettura di una fiction  quanto più credibile per il fruitore, risulterebbe in questa sede operazione assai complessa. In buona sostanza, che si parli di POV (punto di vista), di Mockumentary (falso documentario) o Found Footage (falso reperto filmico), il punto di partenza (e quello d’arrivo) teoretico di questo filone, punta sull’infondere nello spettatore il dubbio, o quanto meno la vaga  sensazione, che ciò che sta vedendo sia possibile nella vita di tutti i giorni. Presupposto, questo, che come vedremo successivamente sta subendo un sostanziale tradimento formale. Ci arriviamo. Per essere oltremodo chiari, e per venire al nostro beneamato genere di riferimento, il passaggio è stato quello di inquietare lo spettatore dapprima facendolo guardare con gli occhi mascherati di Michael Myers (Carpenter, sempre sia lodato), per poi fargli credere che una strega mangia infanti abitasse realmente i boschi del Maryland e che la prova stesse nell’eredità visiva lasciata al mondo dalle vittime. “Tanta roba” direbbe qualcuno di voi sotto i quaranta. Forse troppa.

Il retaggio lasciato da The Blair Witch Project al mondo dell’Horror – e più in generale al Cinema tout court – è sentenza inappellabile, atto fondativo, clausola senza rescissioni di sorta. Che ci piaccia o meno il film, quel film, è la scheletro formale e sostanziale  di tanta parte delle produzioni contemporanee. Prima di Sanchez e Myrik Deodato e i suoi cannibali, prima ancora il campo di concentramento per hippy e fancazzisti di Punishment Park e altri ancora meritevoli di attenzione maggiore. Eppure la “strega”è entrata nella storia del Cinema con una virulenza impressionante e superiore a tutti i precedenti contagiando da lì in poi, soprattutto in ambito Horror, un certo modo di fare film. Senza contare la mera questione di incassi stellari in relazione al budget, viatico per la produzione massiccia indipendente e spesso a basso costo di pellicole dalle alterne fortune, il cui esemplare più noto è senza dubbio il Paranormal Activity di Oren Peli,  il quale ha semplicemente riproposto lo stesso modello di Sanchez e Myrik qualche anno dopo con il medesimo risultato di gloria e verdoni. Per tanto, il valore della “strega di Blair” e la sua portata non vanno analizzati solo da un punto di vista cronologico. Quell’operazione geniale, congeniata mirabilmente anni prima dell’uscita nel Luglio 99’, sebbene non fosse la prima del genere fu la più influente grazie a un valore artistico intrinseco straordinario. The Blair Witch Project funziona a partire dalla sceneggiatura solida e inquietante per poi passare al montaggio pressoché inesistente, nauseabondo e confondente peggio di un filmino in super 8 (in realtà eravamo agli esordi del boom delle handycam), fino a giungere agli aspetti psicologici, alle radenti sensazioni di disagio al termine della proiezione. Qualcosa che trapassa il caso e che pare più un ingegnoso studio comportamentista, un chirurgico smembramento delle sicurezze umane in salsa di marketing, con tanto di sito internet sulla leggenda (eravamo ai rudimenti del web e il flusso di informazioni era molto meno accessibile e confutabile) e bestseller tradotto in diverse lingue. La leggenda funzionò per qualche settimana, poi, come già avvenuto per il di solo un anno precedente, e ben più sfortunato, Alien Abduction: Incident At Lake County, l’impianto produttivo e distributivo non fu sufficiente a evitare la fine della gag. Ma intanto le sale si erano riempite e tutti noi, chi più chi meno, abbiamo contribuito al mutuo delle ville di Sanchez e Myrik. Fine della storia. Magari…

Il POV da quel momento in poi divenne moda oltre che tecnica espositiva e l’idea di infondere dubbio e inquietudine nello spettatore divenne sempre di minor importanza. Ciò che affatica e disturba nella maggior parte degli epigoni della “strega” è lo stupro dei prodromi di senso. Non importa più stupire, non importa più infondere dubbi, ciò che conta è girare in POV. E lì casca l’asinello perché crolla l’estetica. Chi vi scrive crede fortemente nella sperimentazione ma odia l’accanimento tecnico e artistico. Tagli, montaggio poliprospettivo e, per dirlo come la scuola romana, i canonici “fegatelli”, non sono elementi di contorno. Anzi, sono essenza. È un po’ come confondere l’esperimento con le basi empiriche, come confondere cavia e virus. Il POV è un azzardo divenuto metodo di massa, fino a riproporsi uguale o molto simile a se stesso, stantio e stra abusato, fiacco e all’insegna del già visto. Perdendo di vista la genialità della verosomiglianza, questo modo di trattare la produzione ha messo in luce i limiti oggettivi della tecnica. Un pugile promettente che, perso l’iniziale ardore, si mette in guardia e  va sulle corde a metà incontro fino all’ineludibile knock out. Per rimanere nella metafora pugilistica non avremmo la leggenda di Mohammed Alì se il suo inganno a Foreman nel celebre incontro di Kinshasa non fosse stata momentanea genialità, più che mera manifestazione tecnica  Tolta qualche eccezione (soprattutto spagnola e inglese come i noti REC e Last Horror Movie), la scia di immonde pellicole sparse fra sale (sempre meno) e distribuzione diretta in home video ha depresso il sistema centrale di orde di spettatori più del peggior cocktail di ansiolitici. Remake, prequel, sequel… inutili porcherie seriali in nome della new wave POV. Da Quarantena e ESP, da The Devil Inside al Quarto Tipo e varie deformi progenie a cui nemmeno il caro Romero è scampato, macchiandosi di abominio masochistico e, ahimè, costringendo l’appassionato a una inevitabile valutazione agiografica della carriera del maestro George. Insomma non se ne può più e forse il giochino sta stufando oltremodo rendendo patetico ciò che in origine è stato innovativo. Viene il dubbio che POV da acronimo di “point of view” si stia ben presto trasformando in “pale obsolete vision”… lascio al lettore la traduzione.

About stefano paiuzza
Appassionato d'horror da tempi recenti ma affascinato dalla paura da sempre. Ama in particolar modo il cinema europeo ed extra hollywoodiano in genere. Sogna una carriera come critico cinematografico e nel frattempo si diletta tra letture specifiche e visioni trasversali. Lavora a stretto contatto con la follia o forse è la follia a lavorare su di lui. Se fosse un regista sarebbe Winding Refn, uno scrittore Philip Roth, un animale una tartaruga. Ha pronto uno script per un corto ma non lo ha mai fatto leggere. Citazione preferita: "La dittatura è dentro di te" Manuel Agnelli.

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