Cinema I nove tasselli del dolore: la saga di Hellraiser

I nove tasselli del dolore: la saga di Hellraiser

Parlare di Hellraiser significa affrontare uno dei miti intoccabili del cinema horror anni 80 al pari dei vari Nightmare, Venerdì 13 o Halloween. Marchio di questa serie è soprattutto Pinhead, il suppliziante capo, leader di un gruppo di carcerieri ultraterreni mandati sulla terra per recuperare le anime fuggite all’inferno.

La sua iconografia, testa piena di chiodi e abito quasi sacrale, è entrata giustamente nell’immaginario di ogni appassionato del cinema di paura, tanto che i seguiti hanno cercato di promuoverlo a villain assoluto. La serie di Hellraiser ha vissuto però un lento declino, una caduta nel maelstrom del prodotto diretto in video anonimo e molte volte neanche confezionato bene, un inferno vero, questo sì, dove le cose buone della serie hanno avuto il tempo di essere ridicolizzate sempre più fino a toccare il punto più basso nell’inguardabile Hellraiser hellword di Rick Bota. Peccato perché tutto nasce con un film a bassissimo budget girato dallo scrittore Clive Barker, un piccolo gioiello di paura e sadismo.

Hellraiser – Non ci sono limiti

La genesi di Hellraiser è lo scatto di orgoglio, la voglia di rivalsa che lo scrittore Barker aveva nei confronti del cinema. Le sue esperienze filmiche passate erano state totalmente negative visto che due sue sceneggiature, Rawhead rex e Underworld, erano state completamente stuprate, travisate e malgirate da inetti. Così Barker decise di prendere possesso di una sua creatura, il romanzo breve Schiavi dall’inferno, per evitare che qualcun altro potesse stravolgere un universo così complesso e personale come la sua letteratura. Barker all’epoca aveva alle spalle come scrittore il successo dei suoi Book of blood, antologie di racconti crudeli ed erotici, e le regie, ai limiti dello sperimentale, di due opere girate in giovane età, non horror ma ai confini del genere, Salomè e The forbidden. In Italia i suoi libri uscivano con la scritta “Ormai è più bravo di me” ad opera di Stephen King, un altro grande romanziere, ma completamente imparagonabile, soprattutto per il suo classicismo, allo stile arrabbiato di Barker. Cabal (Nightbreed), il suo parto migliore di sempre, doveva essere ancora scritto (e girato), ma sorprende come un romanzo abbastanza sottovoce come Schiavi dall’inferno abbia saputo dare le radici a un grande horror come Hellraiser fu. Il film venne girato con il budget bassissimo di un milione di dollari ma fu chiaro anche alla casa di produzione New line che il potenziale dell’opera era grande, tanto che furono stanziati soldi extra per rifare alcuni effetti speciali non proprio riusciti (soprattutto la rinascita di Frank dall’inferno).

Barker tutt’oggi dichiara che comunque l’effetto, pure con altri finanziamenti, era comunque mediocre perché tutta la troupe era sotto gli effetti dell’alcool. Il merito di Hellraiser è però di portare al cinema un horror più maturo, senza spauracchi da miticizzare alla Freddy Krueger, tanto che nei credits dell’opera Pinhead non aveva nome, era semplicemente il cenobita capo. Chiave della vicenda è invece la scatola di Lemarchand, una specie di gotico cubo di Rubik, difficilissimo da risolvere, ma capace di aprire le porte dell’inferno o del paradiso (ache se Barker lascia intendere siano la stessa cosa). In Hellraiser si respira un’aria malata e malsana, i personaggi sono mossi da umane pulsioni, l’amore, il sesso, la famiglia, che li spingono ad atti brutali e animaleschi. In Hellraiser non c’è spazio per i sentimenti, anche la sessualità è animalesca, poco erotica, molto feroce, in un’idea di piacere sadomaso che sublima dall’intreccio fantastico principale.

I cenobiti (o supplizianti) entrano in scena solo a metà film, come se l’opera avesse due tronchi quasi ben distinti, con una frase entrata nella leggenda “Siamo angeli per alcuni e demoni per altri”. Il loro look è un mix tra sacro e profano, abiti quasi sacerdoteschi, almeno in Pinhead, ma fatti in lattice, con la pelle stretta quasi a esplodere, in una dimensione dove il dolore è mostrato con vanto anche nella carne. Se il personaggio di Kirsty è il meno interessante, novella Alice nel paese degli orrori, quasi una variante hardcore della Jennifer Connelly del contemporaneo Labyrinth, più variegato è quello di Julia, umanissima anche quando uccide, riluttante ma ferma nell’idea di una passione assoluta e ferina che non ha nulla a che fare con l’amore, ma con la pelle, la chimica, il sangue e appunto la carne. Hellraiser non è proprio un horror facile, anche se ne ha le parvenze, i sottotesti sono moltissimi, dall’incesto sfiorato nel rapporto Kirsty/suo padre fino alla chiave omosessuale della vicenda (Barker stesso dichiarò di essere gay), soprattutto nella freddezza dei rapporti etero o per lo meno nella loro rappresentazione brutale. Anche il modus di approccio di Julia con i suoi casuali amanti, rimorchiati nei bar e destinati ad approcci fugaci, trova un corrispettivo negli incontri clandestini tra maschi omosessuali negli anni 80, quando la parola gay era sinonimo di devianza o malattia (l’Aids era la malattia per eccellenza delle comunità omosessuali).

Hellraiser fu pensato con il titolo, folle ma geniale, di Sadomasochist from Beyond the Grave, proprio da horror B movie di un’epoca passata, un po’ come quello ideato da George Romero per il suo La notte dei morti viventi, Night of Anubis. Fantastico come lo scrittore/regista riesca a gestire il poco spazio e le misere location come se avesse un grande set, ampliando comunque con gli essenziali zoom la concezione di claustrofobia all’interno della casa usata come scenario. Non che Hellraiser sia un capolavoro, ma è un film importante che ha una prima parte ottima e una seconda troppo sbrigativa, quasi che l’opera fosse caduta tra le mani di un montaggio essenziale. Tra le scene che vennero escluse dal cut finale ci fu sicuramente la celebre citazione di Un chien d’andalou di Buñuel e Dalì dove Pinhead si tagliava l’occhio, immagine per assurdo simbolo del film grazie a numerose foto in riviste d’epoca come Fangoria. Questo però non toglie il fascino ad un’opera tra le migliori e innovative degli anni 80 in quello che doveva essere il primo di grandi successi come regista di Barker e che invece riservò solo due interessanti e ingiusti flop, Cabal e Il signore delle illusioni.

I seguiti per il cinema

Il primo degli 8 sequel arrivò dopo neanche 2 anni, nel 1989, e fortunatamente si trattava di una pellicola al livello dell’opera originale. A compiere il miracolo questa volta era il giovane regista Tony Randell alla sua prima regia importante e destinato alle peggiori cose, tra le quali l’orribile film di Ken il guerriero, prima di finire a dirigere I Power ranger, morte artistica per qualunque autore. A scrivere la sceneggiatura il critico Peter Atkins, grande fan tra l’altro del nostro Lucio Fulci, che riuscì con abilità a creare una storia originale e molto più complessa, grazie anche all’aumento di budget. In Hellbound tutto viene spinto all’eccesso sia la violenza che la morbosità, tanto che in Italia uscì al cinema solo dopo pesanti censure.

Nel film non si contano le morti orribili o le torture ai danni di sventurati, questa volta l’inferno barkeriano non viene solo trasposto fedelmente ma urlato al pubblico in tutta la sua macabra bellezza. Clive Barker produce, ma in alcune interviste non si definisce propriamente soddisfatto dichiarando che “Tony Randel era più interessato a mostrare fanciulle in sottovesti che a interessarsi alla trama“. Questa volta la parte della cattiva a tutto tondo spetta a Julia in un film che sposta l’attenzione ancora di più verso il mondo femminile riducendo gli uomini a vittime sacrificali o comprimari incolori. Certo che Hellbound è l’Hellraiser senza limitazioni di budget che non era stato fatto nel 1987, di certo una delle opere più crudeli e sanguinose degli anni 80. I supplizianti naturalmente tornano, e stavolta, anche se saranno di aiuto all’eroina Kristy contro un nuovo cenobita, hanno più spazio, soprattutto Pinhead che mostra persino il viso senza make up, quello dell’attore Doug Bradley. Viene anche ricreato con ottimi effetti speciali l’inferno tanto parlato nel primo capitolo (e lì risolto con un mostro e un lungo corridoio), facendo di Hellbound un’opera anche visivamente interessante. Alcune scene girate non venero inserite nel cut vulgato, tanto che un’inedita sequenza dove Pinhead è vestito da dottore la si può vedere solo all’interno di un trailer per il mercato tedesco. Con Hell on earth (Hellraiser 3) del 1992 purtroppo si scende a un livello più basso. Questa volta si cerca di snellire il prodotto verso il pubblico teen, infarcendo l’opera di brutte battute a effetto con l’idea di far diventare Pinhead una specie di simpatico Freddy Krueger sadomaso.

Delude che a scrivere questo pasticciaccio sia sempre Peter Atkins, questa volta in grande imbarazzo con la materia trattata. Naturalmente il film, girato malino tra l’altro, fallisce miseramente e resta un prodotto ibrido, tra le buone cose orecchiate dai precedenti capitoli e quelle nuove (compreso un gruppo di sgarruppati nuovi supplizianti) di disarmante pochezza. Si salva solo un impressionante massacro perpetrato in una discoteca, ma ormai anche l’idea di una dimensione di piacere inenarrabile viene riassunto con due cadaveri spellati e qualche catena lanciata dal cielo. A girare il film in un primo momento, come si legge dalle news sui numeri d’epoca di un Fangoria italiano, doveva essere prima lo stesso Tony Randell di Hellbound, poi lo sceneggiatore Peter Atkins al suo debutto registico, ma si preferì alla fine il giovane Anthony Hickox, figlio d’arte e autore tra l’altro di un esordio non male, Waxwork. Probabilmente comunque Randell con il suo Hellraiser cupo non era la scelta più felice per quello che doveva essere il capitolo più giovane. Nell’attesa del quarto capitolo (che arrivò dopo ben 5 anni!!) i fan poterono giocare con il (mediocre) videogame tratto dalla serie e disponibile per la piattaforma Nintendo. Hellraiser 4 Bloodlines è del 1996 ed è l’ultimo capitolo ad uscire al cinema, da qui in avanti gli Hellraiser saranno confinati al mercato dvd. Non stupiscono le ragioni visto che questo nuovo capitolo, ancora scritto malamente da Adkins, sia peggiore del brutto film precedente. Questa volta però sembra non fosse per colpa del regista Kevin Yangher, ma della produzione che scontenta del lavoro a basso tasso di emoglobina decise di licenziare il regista destinato, attuare un nuovo montaggio, stanziare nuove scene inedite di matrice scifi (?!?) e dare a film un finale, a detta loro, più incisivo. La nuova versione è opera di un regista tutto sommato bravo, Joe Chappelle (Halloween 6 e Phantoms), ma è qualcosa di così disastroso e sciatto da rovinare il girato precedente. Hellraiser 4 è un film ad episodi con diverse storie che vogliono raccontare la genesi della scatola di Lemarchand: il capitolo più efficace è il primo, dove viene introdotta la bella figura della demonessa Angelique sullo sfondo della rivoluzione francese. Per il resto però, con o senza modifiche, Hellraiser 4 è un film mal bilanciato dove Pinhead riesce a rendersi ancora più ridicolo del solito. Giustamente Kevin Yagher firmò l’opera sotto lo pseudonimo di Alan Smithee, nom de plume di ogni regista insoddisfatto della sua opera.

Seguiti diretti in dvd

Il primo Hellraiser che non uscì al cinema fu Hellraiser Inferno (2000) di Scott Derrickson, futuro regista de L’esorcismo di Emily Rose e Sinister, all’epoca al suo esordio con un lungometraggio. A discapito di ogni ragionevole dubbio Inferno è un ottimo capitolo, molto simile come struttura ai contemporanei fumetti ispirati alla serie dove Pinhead e i suoi soci arrivavano soltanto alla fine della storia. Sembra oltretutto che la sceneggiatura non fosse stata pensata per essere il quinto capitolo della saga barkeriana, ma lo divenne su richiesta dei produttori. Visivamente l’opera è molto affascinante e non lesina su particolari forti come omicidi sanguinosi o sesso estremo risultando una piacevole sorpresa inaspettata.

Ottimo il personaggio interpretato di Craig Sheffer (attore già visto in Cabal), un detective corrotto e puttaniere, primo personaggio maschile di un certo peso in Hellraiser (se non contiamo Pinhead). La sua lenta discesa verso gli abissi del ricordo, intrisa da un senso di peccato e colpa quasi ferrariano, avrebbe meritato un pubblico più attento di quello popcorn e coca cola del diretto in video, ma anche così Inferno resta, pure con il budget risibile di 2 milioni di dollari, il capitolo più riuscito dopo Hellbound. Da qui in avanti la formula creata da Derrickson (incubi e apparizione finale di Pinhead) verrà ripetuta nei capitoli 6 e 7 diretti stavolta dall’effettista Rick Bota. Con Hellseeker (2002) siamo ancora su buoni risultati, ma la storia è già vista nel precedente segmento. Non serve a nulla resuscitare l’eroina per eccellenza di Hellraiser, Kirsty, e la sua interprete, Ashley Laurence, per un insulso cammeo che vorrebbe legare l’opera ai primi due, inavvicinabili, capitoli. Il tutto naturalmente risulta abbastanza gratuito e Hellseeker si lascia guardare, ha un paio di momenti forti (un’anguilla vomitata), ma in generale lo si confonde troppo con il più riuscito Inferno.

Meglio va a Bota con il buonissimo Deader dove stavolta la storia pur seguendo lo stesso schema, ha degli spunti originali. Si immagina che una setta di suicidi abbia trovato la chiave dell’immortalità attraverso la scatola di Lemarchand, quindi gli adepti si uccidono e tornano dall’inferno, ma non hanno fatto i conti con Pinhead. Deader ha una regia ottima, la migliore prova finora per Rick Bota, e una sceneggiatura accattivante piena di colpi di scena, ma soprattutto un grado di crudeltà elevato che non sfigura coi capitoli migliori della serie. Sempre del 2005 e sempre diretto dallo stesso autore, è Hellraiser 8: Hellwold, il punto più basso mai toccato dalla serie. Con location bulgare e l’idea sciagurata del metacinema di matrice craveniana, tutto l’universo barkeriano e quello di buono detto nei precedeti capitoli viene buttato via in un banale slasher dove Pinhead uccide le sue vittime (anche) a colpi di mannaja. L’attore Doug Bradley, ingrassato e terribilmente gigionesco, incarna la miserabilità di un’opera che non aveva senso di esistere. Tra gli attori spicca Lance Henriksen, ex cyborg di Aliens scontro finale e maschera da cattivo in tanti action movie hollywoodiani, bravissimo, ma anche lui incapace di salvare il pasticcio dall’apocalisse.

Helraiser revelations e il remake

Passano diversi anni, ma la serie non muore solo grazie ai vari fan che girano dei deliziosi corti ispirati all’universo barkeriano come Hellraiser: Prophecy. La saga ufficialmente sembrava morta anche se ad un certo punto viene vagliata l’idea di produrre un nuovo Hellraiser. Il motivo che spinge nel 2011 i produttori della Dimension, o meglio della sua sottocasa per horror diretti in video, Dimension extreme, a mettere in cantiere un nono episodio della saga del cenobita dalla testa di puntaspillo è solo e meramente commerciale. Infatti troppi anni erano passati dal brutto Hellraiser hellword e i diritti sul marchio stavano per scadere, cosa imperdonabile anche perchè un remake ad alto budget del primo film era accarezzato da troppo tempo senza concretizzarsi.

Fare un altro Hellraiser di poco conto significava avere tempo per il progetto più ambizioso anche in fretta e furia e senza crederci molto. Fu quindi contattato il regista più abile in circolazione nel giostrarsi con seguiti dal budget nullo, il Victor Garcia di Mirrors 2 e Return to the house on haunted hills, costretto ad improvvissare un canovaccio con un budget non superiore a quello avuto da Barker nel 1987. Doug Bradley, il Pinhead storico di Hellraiser, fiuta la fregatura e si da’ alla macchia: si opta per il meno conosciuto Stephan Smith Collison, gigionesco e fuori parte fino all’inverosimile. Il film ha destino davvero sfortunato: vive un futuro di oblio, solo un Festival sperduto in Texas, e due anni quasi di nulla, dove lo stesso Garcia si chiede che fine abbia fatto la sua creatura. Poi, magia delle magie, il film riappare, solo in dvd insieme ad un altro seguito di basso profilo della Dimension extreme, Children of the corn genesis, ottenendo critiche feroci da tutto il globo. Che Hellraiser revelations non sia un capolavoro è un dato di fatto: troppo povero, troppo gratuito nel suo gioco al massacro, troppo inconsistente per gareggiare con i grandi capitoli della serie, il primo di Barker e il secondo di Randel, eppure dotato di un suo fascino inconcepibile. Il film comunque non piace a nessuno, ma l’attesa però per il remake aumenta nei fan esponenzialmente: tra i nomi vagliati per la regia  saltano fuori il Pascal Lugier di Martyrs e i due autori dell’estremo A’ l’interieur, Bustillo e Maury. Nulla di fatto e l’ultimo candidato, il Patrick Lussier di San valentino di sangue, è uscito dai giochi qualche mese fa. E’ certo però che le foto preparatorie dei trucchi dell’opera erano abbastanza disastrose, soprattutto il look di Pinhead. Però noi siamo fiduciosi, remake o nuovo capitolo che sia, perché Hellraiser è una saga troppo interessante per morire e può ancora terrorizzare le nuove generazioni.

About Andrea Lanza
Si fanno molte ipotesi sulla sua genesi, tutte comunque deliranti. Quel che è certo è che ama l’horror e vive di horror, anche se molte volte ad affascinarlo sono le produzioni più becere. “Esteta del miserabile cinematografico” si autodefinisce, ma la realtà è che è sensibile a tette e sangue.

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