Cinema The Fog

The Fog

Dopo il successo di Halloween, John Carpenter gira il suo horror più affascinante, intriso di mistero e richiami ai classici degli anni ’30 e ’40.

La cittadina californiana di San Antonio Bay è in procinto di festeggiare il suo primo secolo di vita, quando cominciano ad accadere strani fatti causati da un’improvvisa e fitta nebbia che compare e scompare misteriosamente.

Nel frattempo, Padre Malone trova in una nicchia nascosta della sua chiesa un vecchio diario lasciato dal nonno in cui quest’ultimo rivela che nel 1880 i sei fondatori della città (tra cui lui stesso) avevano fatto affondare la Elizabeth Dane, una nave su cui viaggiava un gruppo di lebbrosi in procinto di stabilirsi in una zona limitrofa, e con l’oro che era stato trovato a bordo avevano potuto far prosperare la nuova comunità. Mentre i tragici fatti di sangue continuano ad accadere, Padre Malone capisce che tutto ciò non è altro che la vendetta dei viaggiatori della Elizabeth Dane che, a un secolo di distanza dalla loro morte, sono tornati a reclamare giustizia.

Dopo il successo riscosso con Halloween due anni prima, e dopo alcuni progetti interrotti, tra cui quello della trasposizione cinematografica di The Prometheus Crisis tratto dall’omonimo romanzo di George C. Braunstein, nel 1980 John Carpenter decise di rimettersi a lavoro insieme alla fidata Debra Hill su una storia ispirata a un fatto realmente accaduto a Goleta, vicino a Santa Barbara, nel XVIII secolo. Secondo quanto riportato dai documenti reperiti dai due autori, alcuni uomini avevano acceso un falso falò sulla scogliera per far naufragare una nave carica d’oro e rubarne così il carico.  Dallo script in questione venne fuori The Fog, da molti considerato il miglior film di John Carpenter (Filmtv lo definì “[…] un horror fatto di atmosfere spettrali che riflette, con la solita lucidità, sulla perdita d’innocenza di una comunità nata sulle rovine del peccato.)”, nonostante lo stesso regista abbia più volte ammesso di non amarlo tanto e di considerarlo un “classico dell’horror minore”.

Una volta portata a termine una prima versione della sceneggiatura, la Hill riuscì a ottenere anche un  contratto di distribuzione dalla Avco-Embassy e investì lei stessa circa 1.100.000 dollari per la produzione. Carpenter, dal canto suo, volle riformare lo stesso gruppo che aveva portato al successo Halloween, e decise così di chiamare alcune sue vecchie conoscenze: la fotografia fu affidata a Dean Cundy, Raymond Stella fu l’operatore alla Panaglide, Tommy Lee Wallace il production designer e montatore, mentre Larry Franco lo affiancò come assistente alla regia. Carpenter, invece, si dedicò alla composizione della musica, esattamente come fatto in Halloween. Per le riprese furono scelti Point Reyes (dove lo stesso Carpenter aveva comprato una casa e dove girerà anche Il villaggio dei dannati) e Long Beach, ma quando queste terminarono Carpenter non fu del tutto convinto del risultato. I suoi dubbi nascevano dal fatto che il suo nuovo lavoro si discostava parecchio da quella che era in quel periodo la maggior strada battuta dal cinema horror: il gore. Pellicole come Venerdì 13 avevano infatti inaugurato un nuovo filone in cui lo spettatore veniva scioccato con immagini crude e sanguinolente, mentre lui aveva appena terminato un film in cui l’orrore non si vedeva mai, venendo soltanto immaginato. Dunque, Carpenter decise di rimontare la pellicola inserendo nuove sequenze che potessero in qualche modo cavalcare l’onda dell’horror-gore e ciò si concretizzò nel personaggio di “Wormface”, lo zombi putrefatto e col viso ricoperto di vermi creato dalla fervida immaginazione di Rob Bottin[1]. I riconoscimenti non tardarono ad arrivare e così già nel 1980 The Fog si aggiudicò il Premio Speciale della Giuria al Festival Avoriaz, imponendosi poco dopo anche al pubblico dei cinema dove incasserà, solo negli Stati Uniti, ben 21.378.361 dollari.

Uno dei principali pregi di The Fog è l’impatto visivo della pellicola, merito soprattutto della fotografia di Cundey che imprime al film dei colori in grado di acuire la sensazione di angoscia e mistero che pervade ogni angolo di San Antonio Bay. Fin dalle sequenze iniziali, dai titoli di testa, l’intento di Carpenter è quello di immergerci in un’atmosfera retrò, da horror anni ’30-’40, quando le storie di fantasmi cominciavano a prendere piede al cinema. Lui stesso più volte ha dichiarato di essersi ispirato a film come Il vampiro dell’isola o al classico zombesco Ho camminato con uno zombie dove l’orrore era soltanto accennato e incorniciato in un’atmosfera talmente malvagia e inquietante da portare il film in un mondo parallelo, slegato da ogni contatto con reale. In The Fog ciò risalta subito e viene sottolineato dalla scelta di inserire un prologo in cui un vecchio marinaio (Mr Machen) racconta la classica “storia di paura attorno a un fuoco” a un gruppo di ragazzini. A questo Carpenter fa seguire delle scelte stilistiche che lo portano a indugiare sui primi fatti inquietanti che avvengono attorno alla piccola cittadina: l’auto di Elizabeth che improvvisamente si ferma, il malfunzionamento di molte macchine allo scoccare della mezzanotte, l’improvviso formarsi della nebbia in cui si scorgono le forme dei fantasmi, tutti elementi che il regista utilizza per delimitare il mondo dentro cui poi verrà sviluppata la storia.

Come già affrontato nei suoi precedenti lavori (da Halloween a Distretto 13 fino al successivo Il seme della follia), in The Fog Carpenter torna a parlare di piccole comunità, quelle che secondo la sua filosofia spesso nascondono i segreti più inquietanti. San Antonio Bay, come l’Haddonfield  di Halloween o la Hobb’s End di Il seme della follia sono rappresentanti di un mondo ”altro” in cui spesso avviene l’incontro-scontro tra Religione e Male che, a sua volta, si materializza nella scoperta del diario da parte di Padre Malone e nello splendido finale con i fantasmi che fanno irruzione nella chiesa, ultimo baluardo di difesa per i sopravvissuti. All’interno di una ideologia fatta di micro mondi come quella carpenteriana, non poteva mancare il riferimento alla famiglia e come nei suoi precedenti film, anche in The Fog Carpenter ci svela il suo punto di vista. Come hanno scritto Lagier e Thoret nel volume Mythes et Masques: les fantomes de John Carpenter “la famiglia si riduce spesso a una struttura monoparentale, la madre, oppure a una coppia in crisi della quale non vediamo che la donna”[2]  e il regista americano, dunque, sceglie come nostra “guida” Stevie Wayne, una donna sola, indipendente e divenuta madre troppo presto, che ricalca le orme di altre eroine carpenteriane come la Leigh di Distretto 13 o la Laurie di Halloween. 

Come accennato sopra, Carpenter tende a dividere The Fog in due realtà (quella vera e quella “altra”) e la scelta si concretizza ancora una volta con delle precise scelte stilistiche da parte del regista che ci racconta la storia passando da un livello narrativo all’altro: prima fa rivivere, attraverso il racconto di Machen e l’immaginazione del piccolo Andy, la leggenda narrata dal vecchio marinaio, e poi, con un preciso movimento della macchina da presa, si sposta inquadrando la baia di San Antonio Bay come è oggi, in un ideale passaggio da un mondo all’altro nascosto da una brevissima sequenza di nero. Carpenter continua a muoversi tra diversi livelli narrativi per tutta la durata del film, anche grazie alla scelta di raccontare la storia attraverso tre diversi punti di vista: da un lato c’è il prologo, dall’altro il diario ritrovato da Padre Malone e infine la cronaca radiofonica di Stevie Wayne. Tre diversi modi di raccontare (il fascino della leggenda, il dramma del senso di colpa e la “cronaca diretta”) che permettono al film di svilupparsi in un costante crescendo di pathos, che avviene secondo la classica struttura a imbuto concepita e sviluppata da Hitchcock ne Gli uccelli: le prime avvisaglie di pericolo, l’attacco, la tragedia, la circostanza degli eventi  che imprigiona i protagonisti  in una ragnatela mortale [3].

La struttura a imbuto si può leggere, altresì, all’inverso, se solo si pensa al modo in cui Carpenter cerca di trasmettere un messaggio politico e sociale di un certo spessore partendo, appunto, dal basso, da una comunità microscopica, ma che nel suo passato sintetizza la storia degli interi Stati Uniti d’America. San Antonio Bay non è, infatti, soltanto una cittadina della provincia americana che si appresta a festeggiare il primo secolo di vita, ma è anche e soprattutto una città maledetta, fondata sul sangue di innocenti, esattamente come, in scala più ampia, lo è stata l’America stessa, nata dal massacro da parte dei colonizzatori ai danni delle popolazioni indigene. Per questo motivo “John Carpenter’s The Fog si avvicina molto a ciò che Wood indica come il modello del cinema d’orrore americano; dato che qui i mostri rappresentano precisamente il ritorno dell’innaturale, per non dire del Male, grazie al quale Antonio Bay ha fondato le proprie basi di rispettabilità; una menzogna auto-imposta che la cittadina ha represso per generazioni.”[4] Il messaggio di Carpenter sembra, però, andare oltre affrontando anche l’origine del Male che in questo caso non nasce da un elemento soprannaturale, ma dalle stesse colpe dell’uomo. La nebbia che avvolge Antonio Bay non è la manifestazione di una forza soprannaturale, ma è soltanto la concretizzazione del senso di colpa che attanaglia da secoli la comunità. Per Carpenter c’è sempre una spiegazione razionale (e laica) agli eventi apparentemente inspiegabili che avvengono nei suoi film: come in Halloween la demoniaca presenza di Michael Myers non era altro che la logica conseguenza di una cellula familiare alla deriva, incapace di proteggere i propri frutti, in The Fog la comparsa della nebbia assassina è più umana e simbolica di quanto si possa pensare, perché il bianco della coltre che avvolge Antonio Bay non è altro che il veicolo che dovrebbe permettere all’intera comunità di riconquistare l’innocenza, di lavarsi di dosso il sangue versato un secolo prima.

Nel 2005 The Fog è stato riletto da Rupert Wainwright con la benedizione dello stesso Carpenter, ma il risultato è stato, inevitabilmente, fallimentare. Nonostante la lodevole volontà di regista e autori di non stravolgere eccessivamente la storia originale, il remake finisce per prendere una strada che lo porta lontano dagli intenti del suo predecessore. Fin da subito si intuisce come uno dei temi principali del film di Carpenter, secondo cui le colpe dei padri ricadrebbero sui figli, subiscono un radicale cambiamento. Nella pellicola del 1980, infatti, è chiaro che i fantasmi vogliono vendetta e la vogliono reclamando sei anime come sei erano stati gli uomini che li avevano traditi e arsi vivi, come è chiaro che la loro anima dannata si risveglia a cento anni esatti da quei tragici eventi, in un preciso e simbolico momento storico per San Antonio Bay che proprio in questa occasione rende omaggio ai fondatori con un monumento. Tutto questo nel remake è perso, l’onore piratesco secondo cui soltanto in sei devono morire per saziare la vendetta è del tutto dimenticato e così un po’ tutti finiscono sotto i colpi dei fantasmi (dal gruppo di ragazzi festaioli al vecchio pazzo sempre in caccia di relitti marini), finendo per assistere a un mediocre teen-horror che tradisce lo spirito carpenteriano dell’orrore immaginato in favore di frequenti scene splatter.

La pessima rilettura di Wainwright e compagni non si ferma soltanto qui, e snaturano perfino l’angosciante atmosfera da vecchia storia di fantasmi che era uno dei punti forti dell’originale: grazie a espedienti classici come i clacson delle auto che suonano da soli, televisori che si accendono, macchinari che si mettono in moto e pseudo scosse di terremoto, Carpenter ci immergeva immediatamente nella sua storia, al contrario del remake che invece bada soltanto a spaventare il pubblico. Carpenter, inoltre, ci forniva una guida nella persona della speaker radiofonica Stevie Wayne, un personaggio che nel film di Wainwright viene drasticamente ridimensionato. Il ruolo di Stevie si trasforma così in un qualunque terzo incomodo tra i due protagonisti e perde lo spessore narrativo che invece era centrale nella versione di Carpenter. Se infatti il film del 1980 si apre si chiude con la voce di Stevie che prima dà una sorta di benvenuto ad Antonio Bay e poi invita tutti a guardarsi sempre dalla nebbia, nel remake lei fa soltanto parte del gruppo, è una dei tanti, perdendo perfino quel lato eroico che nel prototipo la spinge a rimanere fino all’ultimo al suo posto, quale fedele cronista degli avvenimenti, a rischio di sacrificare la propria vita. Con Carpenter la donna è i nostri occhi, spessissimo ci troviamo a vedere la nebbia dal suo punto di vista, è lei che racconta il suo incalzante avanzare sul paese, è lei che mette in allarme i cittadini su ciò che sta per accadere, è lei in definitiva la nostra finestra sul cortile; al contrario di quanto succede nel film di Wainwright in cui è soltanto una speaker con un ego smisurato che lavora in un ufficio ultratecnologico all’interno di un faro sulla cui cima svetta, immancabile, una bella bandiera a stelle e strisce.

 

The Fog - VOTO: 4.5/5

Anno: 1980 - Nazione: USA - Durata: 93 min.
Regia di: John Carpenter
Scritto da: John Carpenter e Debra Hill
Cast: Adrienne Barbeau - Jamie Lee Curtis - Janet Leigh - John Houseman - Tom Atkins
Uscita in Italia: 1980 - Disponibile in DVD: Disponibile

 


[1] Il Signore del Male – Il fantastico realistico nel cinema di John Carpenter, Paolo Zelati, Un mondo a parte 2008

[2] Luc Lagier, J. B. Thoret, Mythes et Masques: les fantomes de John Carpenter, cit., p. 242

[3] Giuseppe Salza, Carlo Scarrone, Il cinema di Carpenter, cit., p. 110

[4] Robert C. Cumbow, Order in the Universe: The Films of John Carpenter, cit., p. 96

 

About Marcello Gagliani Caputo
Giornalista pubblicista, scrive racconti (Finestra Segreta Vita Segreta), saggi sul cinema di genere, articoli per blog e siti di critica e informazione letterario cinematografica, e trova pure il tempo per scrivere romanzi (Il Sentiero di Rose).

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