Approfondimenti Jean Ray: gli spettrali carillons del mistero

Jean Ray: gli spettrali carillons del mistero

Uno speciale dedicato a Jean Ray, autore delle incredibili avventure dell’investigatore Harry Dickson nonché di un romanzo e di alcune raccolte di racconti che restano fra quanto di più squisitamente inquietante possano annoverare le biblioteche del mistero e dell’orrore.

Nel 1904 il diciassettenne Raymond Jean-Marie de Kremer entra, per acquistare dei dolci dall’aria squisita che ha visto esposti in vetrina, in una vecchia confetteria di Gand. Il locale è assolutamente vuoto e silenzioso: a nulla serve attendere e chiamare. Il ragazzo prende la decisione di riempire di dolci un sacchetto e di andarsene. Ma, pochi giorni dopo, quando vorrà ritornare in quella bottega, scoprirà che, nell’antica viuzza fiamminga dove i frontoni dei palazzi si specchiano nell’acqua ferma del canale, la pasticceria è scomparsa con l’edificio che la ospitava e nessuno ricorda d’averla mai vista; né verrà mai più ritrovata, per quanto il ragazzo indaghi in giro per la cittadina.

Nel 1963 il settantaseienne Jean Ray accetta la sfida degli amici che da anni lo ascoltano vantarsi di essere stato, tempo addietro, domatore di leoni. Un circo ha montato le tende nei pressi di Gand: il vecchio s’introduce spavaldo, le mani in tasca, nella gabbia delle fiere, e queste non si muovono né gli torceranno un capello. Nel settembre dell’anno successivo Raymond Jean-Marie de Kremer, alias John Flanders, alias Jean Ray, muore a Gand.

Fra i due aneddoti, probabilmente frutto della fantasia dell’eccentrico scrittore e che hanno contribuito a crearne il mito, è compresa la vita di uno dei più grandi autori di letteratura fantastica: nato a Gand l’otto luglio del 1887 da un uomo di mare e da un’istitutrice, nipote di una pellerossa originaria del Dakota, millantatosi di volta in volta come marinaio, contrabbandiere sulla via del rhum e trafficante nel riff marocchino, ma soprattutto autentico creatore, sotto lo pseudonimo di John Flanders, di meravigliose avventure per ragazzi e, sotto quello di Jean Ray, delle incredibili avventure dell’investigatore Harry Dickson nonché di un romanzo e di alcune raccolte di racconti che restano fra quanto di più squisitamente inquietante possano annoverare le biblioteche del mistero e dell’orrore. Oltre alle avventure di Harry Dickson pubblicate, già a partire dal ’60 in edizione integrale dalla casa franco-belga Marabout, e raggruppate in seguito dalle edizioni NEO in 24 volumi, gli altri titoli di Jean Ray sono, in ordine cronologico di pubblicazione: Les contes du Whisky (1925); La croisière des ombres (1932); Le Grand Nocturne (1942); Malpertuis (1943); La cité de l’indicible peur, Les cercles de l’épouvante, Les derniers contes de Canterbury (1944); Le livre des fantomes, la raccolta Les 25 meilleures histoires noires et fantastiques, Saint-Judas de la nuit, Le Carrousel des malefices, Les contes noirs du Golf (1947).

A fronte di un’attività così vasta, la vita di de Kremer merita di essere narrata più in dettaglio, al di là dei due divertenti episodi “fantastici” che la comprendono. Perché, sotto qualsiasi punto di vista, non è di certo la vita che s’immagina per uno scrittore di novelle orrorifiche. Raymond comincia molto presto a lavorare professionalmente per varie riviste, sulle pagine delle quali pubblica novelle e poemi con il suo vero cognome, de Kremer. Nel 1912 sposa l’attrice di rivista Virginie Bal. Nel ’13 diventa direttore del Teatro di Gand L’ancien Cirque des Trois Clefs e nel ’19 presenta con gran successo la rivista scritta di suo pugno Pinnen A, che viene replicata lungamente in diverse piazze del Belgio. A questo punto, più d’una biografia ufficiale attesterebbe che Jean Ray, galvanizzato dal successo, abbandoni l’attività nella pubblica amministrazione per diventare scrittore a tempo pieno, ottenendo contemporaneamente il posto di redattore capo alla rivista Ciné e quello di cronista teatrale a Le Journal de Gand. E che nel ’24, in piena crisi economica, le riviste abbiano chiuso e che, dopo diversi mesi d’inattività, de Kremer si sia dedicato, “per non morire di fame” al contrabbando di alcool con gli Stati Uniti, allora in pieno proibizionismo, a bordo del battello “Rum-Row” in compagnia di autentici pirati. La leggenda vuole che l’insolita esperienza da bucaniere sia con evidenza alla base della pubblicazione de Les contes du Whisky, la sua prima raccolta di racconti, che gli procura due nuovi ingaggi presso le riviste La Revue Belge e L’ami du Livre. E che, proprio quando de Kremer sembra voler tornare alla scrittura e alla creatività artistica, un giornalista scopra la sua “metà oscura” di contrabbandiere di liquori e ne scriva pubblicamente. Raymond viene così arrestato e condannato a più di sei anni di carcere, durante i quali continua a scrivere, utilizzando lo pseudonimo “John Flanders”, in omaggio alla famosa eroina di Defoe, e pubblicando con questo nome racconti di avventura “tradizionale” per ragazzi per La Revue Belge che non manca di sostenerlo durante la prigionia.

Tutto ciò è vero, tranne il presupposto: Jean Ray, letteralmente divorato dal “furore di scrivere”, mal sopportava il suo lavoro alla pubblica amministrazione di Gand, e seppe costruirsi, tra realtà e finzione, una biografia a tal punto “leggendaria”, nonché ricca di mistero e di avventura, da poter adeguatamente colmare certi imbarazzant “buchi” della sua vita. In prigione ci finì di sicuro, ma per abuso d’atti d’ufficio, reato commesso durante la sua attività di funzionario, avvertita come un orpello soffocante che limitava il suo illimitato ego creativo. Così, da un impasto subdolamente vago di elementi certi e altri totalmente inventati, Jean Ray seppe ora ricavare l’origine di questo o di quel racconto, ora costruirsi una biografia che lo vedeva contrabbandare liquori sulla mitica “Rum-Row”, ora trovare il modo per imbrogliare tutte le piste e gettare ulteriore fumo negli occhi ai suoi lettori, quando ad esempio sosteneva d’aver scritto nel ’12 un romanzo intitolato Terre d’aventures, di cui non esiste traccia, oppure quando annunciava la prossima uscita di titoli altrettanto inesistenti, quali Visages et choses crepusculaires, La griffe dans le brouillard e La maison des fantomes. Se vogliamo, un simpaticissimo fanfarone (e per risultare così efficaci nell’arte della narrativa fantastica, forse un po’ fanfaroni occorre esserlo…) che amava moltiplicare con malizia le false piste anche a proposito di sé stesso. Così come, specularmente, molti dei suoi testi, tra i più riusciti, accentuano i misteri invece di dissiparli.

Nel 1933, uscito dal carcere, Ray torna a Gand e dà inizio alla sterminata saga di Harry Dickson, un “investigatore dell’occulto” i cui avversari sono spesso dotati di poteri soprannaturali, in perfetta linea con i vari Dottor Hesselius (Le Fanu), Thomas Carnacki “cacciatore di spettri” (Hodgson) e John Silence (Blackwood): un “Sherlock Holmes americano”, come si legge nei sottotitoli de La Revue Belge, al quale de Kremer dedica qualcosa come 180 storie, di cui più d’una sarà pubblicata sulla mitica Weird Tales. Pare che le prime avventure di Dickson siano in realtà appartenenti a un oscuro autore tedesco rimasto sconosciuto, del quale Raymond si accontenta sulle prime a far da traduttore senza grande interesse. In seguito esigerà di scriverle lui stesso. E molte saranno prodotte nel giro di una sola notte, forse con l’aiuto di qualche bottiglia di liquore per meglio stimolare l’immaginazione. Così, come leggiamo in Maestri della letteratura fantastica, “questa straordinaria serie di avventure accosta i razzi stratosferici e i ‘guirits’ provenienti dalla Siberia con le divinità demoniache assire e con figure mitiche come la Gorgone, in paesaggi e ambienti assolutamente onirici”. Da Gand Raymond non si muoverà più, se non per pochi, brevi viaggi.

Oggetto di un’attenzione ininterrotta che in Francia dura ormai da quasi quarant’anni, Jean Ray è quasi sconosciuto in Italia. Dal 1963, anno nel quale furono pubblicate da Baldini e Castoldi, nella traduzione di Eleonora Bortolon, le 25 meilleures histoires noires et fantastiques e dal 1966, quando apparve la traduzione di Malpertuis per Sugar a cura di Gilda Patitucci, lo scrittore belga è stato completamente ignorato dalla critica e dal pubblico, fatta l’unica eccezione per la meritoria ristampa di Malpertuis nel 1990 nella collana Horror di Mondadori, curata da Giuseppe Lippi, e la riproposta di quattro racconti brevi in un volumetto antologico della Garden Editoriale, Narrativa spettrale, uscito alla chetichella solo in edicola nel maggio 1999. D’altra parte non siamo gli unici ad avere, si direbbe, rimosso Jean Ray: non se ne trova menzione nel puntiglioso lavoro dedicato alla letteratura del terrore da David Punter, né nel pur avvincente saggio di Rosemary Jackson, mentre, per citare due scrittori solo occasionalmente saggisti, né il suo grande contemporaneo Howard Phillips Lovecraft, né Stephen King, incontrastato dominatore dell’horror moderno, lo menzionano nei rispettivi contributi critici, anche se quest’ultimo si degna di includerlo in una lista di cento libri consigliati ai suoi lettori. Non sarà mai troppo tardi quando si riscoprirà questo grande scrittore, ritrovando così anche il gusto di aggirarsi per un’Europa fantastica piena di affascinanti suggestioni.

Algernon Blackwood

Tra le due guerre mondiali, mentre Lovecraft, nel suo isolamento di Providence, produce anno dopo anno l’impressionante corpus dei suoi racconti, molti scrittori del vecchio mondo danno infatti vita a universi fantastici che, per quanto estremamente personali, hanno alcune caratteristiche in comune e condividono, diciamo così, il “trattamento” di certi archetipi o di certi motivi od immagini che dal mito provengono alla letteratura, e in particolar modo a quella di grande diffusione: sia pure in un contesto profondamente differente, tali universi si possono rinvenire anche nelle opere degli autori americani. Se prendiamo, come convenzionali estremi cronologici, Der Golem di Gustav Meyrink (1915) e il primo volume della Trilogia di Gormenghast, Titus Groan (1946), possiamo costatare che tra di essi si viene a situare la grande maggioranza dei capolavori del fantastico contemporaneo. Sono i presbiteri infestati di M.R. James, le dimore “eccessivamente” abitate di Edith Wharton – europea d’adozione – e di Algernon Blackwood, gli spaventosi culti primordiali di Arthur Machen, gli inferni piccolo borghesi di Walter de la Mare e di Hugh Walpole e – perché no? – il castello ai confini della foresta di Jullien Gracq e la fortezza sui limiti del deserto di Dino Buzzati.

Ricordiamo poi che appartengono a questo periodo anche le straordinarie e raccapriccianti illustrazioni che Harry Clarke e Arthur Rackham disegnarono per i racconti di Poe, immagini che si possono ben considerare anche sotto l’aspetto di un commento non meno letterario dei testi per i quali vennero create. Un filo rosso, tutt’altro che tenue, collega fra loro queste opere, riunendole oltreoceano agli scritti di Lovecraft. Un filo rosso che non manca di mostrarsi nei racconti, ma soprattutto nel romanzo Malpertuis, il cui prologo si apre con l’orribile e grottesca visione dei corpi degli Dei, immensi e deformi, abbandonati a “morire interminabilmente” su un’isola dell’Egeo. Alcuni, già spirati, si disperdono a brandelli fra le nubi, altri agonizzano disperatamente, tenuti ancora in vita dagli ultimi uomini che vi credono.

Ray Bradbury

Quest’identica idea, riferita però agli eroi della letteratura popolare e di massa, delle fiabe e delle leggende, tornerà in un racconto di Ray Bradbury compreso nell’antologia The Illustrated Man (1951), nel quale lo scrittore narra come le creature dell’immaginario siano ridotte all’esilio su Marte e scompaiano ad una ad una allorché l’ultima copia dei loro libri viene distrutta. Nel romanzo di Ray si racconta, invece, di un vetusto negromante, Quentin-Moretus Cassave, mandi una nave alla ricerca di questi cadaveri del mito che saranno poi imprigionati, tramite un opportuno patto satanico, in una terribile e antica casa fiamminga, dove condurranno una miserabile esistenza sotto le spoglie di comuni borghesi, che a tratti, con sussulti di malinconia e di furore, ricordano ancora il loro passato sovrumano. Così, per tragica ironia, vediamo le Eumenidi trasformate in tre stizzose e perfide zitelle, Prometeo titolare di un magazzino di colori ad olio per lampade, Giunone divenuta una laida vecchiaccia nella quale sopravvivono soltanto gelosia e avidità, mentre sotto le volte di Malpertuis (con questo nome nei romans medioevali s’indicava il “malpertugio”, l’antro della volpe e, metaforicamente, del Diavolo) si dipana la drammatica vicenda dell’amore inconcepibile tra Jean-Jacques Grandsire (discendente semidivino di una dea riscattata dal nonno ai malefizi dell’ignobile Doucedame, il complice del negromante Cassave) ed Euyale, l’ultima Gorgone, conservatasi miracolosamente splendida e ferale.

Il romanzo riunisce parecchi dei principali temi della narrativa di Ray: i malefici e disgustosi segreti di un’antica casa fiamminga, l’amore sfortunato di un giovane per una figura femminile misteriosamente sovrumana, le indagini che devono arrestarsi davanti all’irruzione del soprannaturale che si cela sotto la crosta della realtà, la degradazione e l’orrida ricomparsa delle antiche potenze del mito e della leggenda. Quest’ultimo tema, centrale in Malpertuis, si può ritrovare anche in diversi racconti della serie di Harry Dickson, il detective che non soltanto s’imbatte continuamente nel meraviglioso e nel fantastico, ma che – in effetti – servì come assoluto pretesto al nostro autore per tessere indisturbato, sotto le apparenze della storia poliziesca, il suo vasto arazzo di misteri: basti citare Le jardin des Furies o Le Dieu inconnu, ma anche in uno dei più efficaci racconti di Ray, comparso nel ’32 nel volume La croisière des ombres, La ruelle tenebreuse, c’imbattiamo nelle Strigi che infestano un vicolo di Amburgo, scomparso dalle carte ma esistente in una dimensione parallela alla nostra – tema anche questo caro allo scrittore, che tuttavia non ne fa certamente un uso fantascientifico.

La morte del mito nella società borghese (e il suo ricomparire nella deformità e nell’orrore) è uno dei motivi più cari alla letteratura dal Romanticismo in poi, e si potrebbe tracciarne un ideale percorso che, partendo da Tieck e Hoffman, attraverso l’olimpo germanico minacciato dalla funesta avidità dell’oro, messo in scena da Richard Wagner nella tetralogia L’anello del Nibelungo con caratteri inconfondibilmente piccolo-borghesi e gli Dei malinconicamente ridicoli evocati da Heinrich Heine, giunge al Concilio d’amore del drammaturgo bavarese Oskar Panizza, con il suo pantheon – cattolico, però – malaticcio e debosciato, che finirà con il richiedere a Satana l’invenzione della sifilide, mentre Gabriele D’Annunzio trasforma Elena, sorella dei Dioscuri e di Clitennestra, in una canuta sgualdrina, serva delle serve nei bordelli greci. Potrebbe darsi che gli Dei in esilio di Heine (che fa arrestare Apollo, scambiato per un vampiro, dall’Inquisizione e trasforma Hermes in un sornione bottegaio olandese) abbiano ispirato direttamente Jean Ray, ma certamente questa complessa tematica si ritrova diffusa in tutta la letteratura fantastica, che ne ha fatto – in modo particolare, come accennavamo più sopra, fra le due guerre mondiali – uno dei centri dinamici più potenti nella creazione di quella che a buon diritto può definirsi “l’estetica dell’orribile”.

Negli anni che videro l’affermarsi dell’espressionismo e poi del futurismo e del surrealismo, l’Europa si riempì fino all’orlo del funesto riaffiorare di antichi miti, leggende e culti, resi ormai – da quello che molto appropriatamente Furio Jesi definì “il nostro viziato rapporto col passato” – uno schermo d’incubo sul quale si proiettavano, e ancora si proiettano, le nostre colpe e i nostri mali, trasformando la multiforme e vitale potenza del mito in uno spettacolo d’orrore e d’inferno. Un corto circuito temporale, oppure il ritorno del tempo su sé stesso, in una stagnante paralisi, riporta alla luce figure appartenenti a epoche remote, se non addirittura anteriori alla comparsa dell’uomo, nelle opere degli scrittori contemporanei a Jean Ray che abbiamo menzionato più sopra. Sono i culti della terra e dei morti nel racconto Semi di melograno di Edith Wharton (1931), le leggende cabalistiche del ghetto nel Golem di Meyrink (1915), le arcane presenze di un’isola danubiana – è significativo che i protagonisti del racconto si chiedano angosciati se si tratti di spiriti elementali, degli antichi Dei o di forze mostruosamente estranee all’uomo – nei Salici di Algernon Blackwood (1931), gli spiriti primordiali che si celano negli animali domestici nel Terrore di Arthur Machen (1917), le abominazioni bibliche che trovano rifugio in dimenticate tombe nelle cattedrali inglesi in Un episodio nella storia d’una cattedrale di Montague Rhodes James (1919), ma anche, naturalmente, le indicibili divinità create oltre Atlantico dalla mente di Lovecraft.

A quest’ultimo Jean Ray è stato ripetutamente avvicinato. Tuttavia non si può spingere il paragone troppo oltre una generica rassomiglianza di alcuni temi, in particolare perché la straordinaria fantasia del nostro e la sua attenzione e, vorremmo dire, ironica pietà verso gli uomini sono caratteristiche del tutto originali ed unicamente sue proprie. Se, infatti, non basterebbe un sommario elenco delle spaventose meraviglie che lo scrittore di Gand dispiega davanti ai lettori con la noncuranza sorniona di un mercante orientale a dare un’idea sufficiente della sua inventiva, che dire degli splendidi paesaggi, urbani, suburbani, esotici, delle campagne e delle foreste che Jean Ray descrive con splendida semplicità di colori e con la maestria di un pittore di grande scuola – e che dire della delicatezza con la quale mette in scena le passioni che si agitano nel cuore umano, più ridicole e odiose dei mostri e degli spettri più antichi?

Pensiamo alle oscure strade di Bruges, Gand o Hildesheim, sferzate nella notte dalla pioggia e dal vento che reca il suono dei carillons dalle torri delle cattedrali gotiche: città abitate da zitelle bigotte, contabili equivoci, vecchi sagrestani, titolari di ammuffite ed oscure botteghe di merceria, dediti in ugual misura alle opere benefiche come alla pipa di schiuma, ai piaceri di una tavola grassa e pesante ed ai ripetuti bicchierini d’acquavite, di kummel e di rhum. Può anche trattarsi di Londra, ma, come ha giustamente osservato Francis Lacassin, è sempre lo stesso luogo, dove un prodigieux arret dans le temps consente ai più terrificanti portenti di manifestarsi, come nelle tele del grande pittore, anch’egli belga, Paul Delvaux. Su questi sfondi che diremmo crepuscolari, e che derivano a Jean Ray dai maestri del simbolismo che egli dovette senz’altro amare – il Rodenbach di Bruges-la-morte, il Verhaeren della Compagnes hallucinées, il Giraud del Pierrot Lunaire, con le loro disperazioni domenicali, le loro lande fangose, i loro beghinaggi sui canali stagnanti – lo scrittore fa scattare (con tanta maggior crudeltà quanto più è sonnolenta e soffocata l’atmosfera) i suoi surreali coups de théatre. Ecco un cimitero inglese, in cui si giunge in tempi noti solo ai negromanti con un omnibus che passa ogni duecento anni, che si muove al completo – lapidi e tutto quanto – con alla testa una specie di statua del Commendatore di bronzo; un avventuriero imprigionato da una strega, già arsa viva trecent’anni prima, in un piatto di maiolica; un cadavere troncato in due che ammorba con la sua putrefazione, frutto d’una maledizione esotica, le tranquille quaresime d’un onesto pensionato; un’orribile giostra che compare in un miserabile quartiere londinese, con un cavallo-tigre scolpito in un legno che non è tale; una dimora demoniaca di Hildesheim, dotata di una stanza-stomaco che ricompensa chi la nutre. Ma ecco altresì le ricercatezze della meditazione sul tempo e la memoria, il sacrificio amoroso, i paradisi infantili, gli attimi di dolorosa commozione nei bellissimi racconti in cui l’espediente della quarta dimensione serve a mostrare quanto vano e cieco sia il gioco che l’uomo, pedina degli angeli, s’illude di condurre per le sue ambizioni: citeremo per tutti Le Grand Nocturne, con il suo complesso dispiegarsi di più livelli temporali paralleli, e di più vicende che s’intersecano, già comprese in un pomeriggio dell’infanzia del protagonista, nel quale è celata la chiave degli incomprensibili e terribili avvenimenti che accadranno molti anni dopo.

Se occorresse avvicinare Jean Ray a qualche altro scrittore, forse il nostro si troverebbe in miglior compagnia con il Rettore di Eton che con il solitario di Providence: la sorniona discrezione di M.R. James gli sarebbe senz’altro più gradita dell’entusiastica, e un po’ fanciullesca, fissazione di Lovecraft per i Grandi Antichi. Ma, di sicuro, tutti e tre si sarebbero trovati benissimo al tavolo di una vecchia e fumosa osteria, in qualche angolo di quell’Europa nordica che Lovefrat amava tanto da modellarvi le sue cittadine puritane e James conosceva bene per avervi trascorso le vacanze estive, aggirandovisi in bicicletta.

La “ricaduta” dell’opera letteraria di Ray sul cinema è quasi nulla, limitandosi a due “tentativi” di film, Le thé des demoiselles, di Roland Stragliati, nel 1946, tratto da La cité de l’indicible peur, e Harry Dickson, per il quale nel corso del 1960 Alain Resnais aveva già effettuato delle locations molto accurate a Londra. Quindi due cortometraggi, L’homme qui osa di Jean Delire (1965), Le gardien du cimitière di Christian Mesnile, e due film a malapena distribuiti (il primo solo in Francia), La grande frousse di Jean-Pierre Mocky (1964), con Bourvil e Jean- Louis Barrault, versione umoristica de La cité de l’indicible peur, e Malpertuis di Harry Kumel del 1972, ambiziosa riscrittura alquanto “deviante” del capolavoro del visionario di Gand, che purtroppo non lascia il segno che dovrebbe.

Harry Kumel

Peccato, perché Harry Kumel, oltre ad essere belga come Ray, aveva pure diretto nel 1970 un pregevolissimo Le rouge aux lèvres, in italiano La vestale di Satana, “un film dallo stile raffinato dai ritmi lentissimi e dai colori diffusi, con una precisa attenzione alle implicazioni freudiane della vicenda, in cui la leggenda della contessa Dracula è ambientata in una Ostenda liberty e autunnale che ricorda la Marienbad di Robbe-Grillet”. Il film, conosciuto anche come Malpertuis, histoire d’une maison maudite, esibisce un’apertura quanto mai “alla Jean Ray”: in una cittadina portuale fiamminga sbarca il giovane marinaio Yann, subito pedinato da due strani figuri, che lo tallonano tra viuzze e vicoli, mentre il ragazzo tenta inutilmente di raggiungere una figura femminile che crede essere sua sorella. Entrato in un locale alquanto equivoco, popolato da marinai ubriachi e donnine disponibili, Yann è violentemente aggredito su istigazione di uno dei due pedinatori, in realtà suo zio, Charles Dideloo. Al suo risveglio, Yann si trova accanto la sorella Nancy ed apprende con scoramento di trovarsi a Malpertuis, una casa altrimenti definita “le mauvais passage”, dove domina, per quanto morente e immobilizzato a letto, l’arcigno e diabolico Quentin Cassave, vecchio esperto di negromanzia e arti magiche. Mentre Yann si affanna a tentare di convincere Nancy a lasciare la dimora, la voce possente e lamentosa di Cassave attraversa tutta la casa in lungo e in largo, accompagnata a ruota da un’altra voce, quella di un uomo che si chiama Lampernisse, vivente in una specie di caverna in un sottoscala. Cassave chiede cibo e Lampernisse supplica che qualcuno gli faccia avere della luce. Gradualmente si disvela la variegatissima “umanità” che vive in Malpertuis: oltre al pachidermico e inquietante Cassave, ecco Filarete, dedito alla tassidermia; lo zio Dideloo e la bella figlia Euryale che accende il cuore di Yann; le tre sorelle, Eleonore, Rosalie e Alice; l’amante di Nancy, Mathias; Doucedame, padre di Yann; i servi e gli addetti alla cucina. A costoro Cassave, sul letto di morte – mentre Lampernisse spia la scena da un buco nella parete – promette di lasciare tutta la sua vasta eredità, a patto che nessuno abbandoni mai la casa. Per quanto contrariati, tutti acconsentono, mentre Yann, che Cassave dichiara d’aver scelto per continuare la propria opera, si ripromette in realtà di scoprire quale assurdo mistero si celi fra le mura di Malpertuis. Subito dopo il funerale, Yann inizia ad investigare. Ma Doucedame elude le sue domande e la claustrofobica casa svela passaggi segreti e immense scale a chiocciola che non conducono da nessuna parte. Relazioni perverse, morti inspiegabili (Mathias inchiodato al muro), tensioni crescenti, sino a quando Yann non apprende la verità da Euryale, di cui si è innamorato: Cassave ha “imprigionato” nei corpi degli abitanti la casa gli antichi Dei della Grecia e lei stessa, Euryale, è la Gorgone con la quale il defunto stregone intendeva far accoppiare il giovane per creare una “nuova super-razza” di Dei ed inaugurare un’altrettanta “età dell’oro”. Ma Yann è così innamorato che, nonostante la rivelazione, intende guardare in viso Euryale e ne resta, logicamente, pietrificato. Ulteriore finale, attualizzato ai giorni nostri (o, se preferite, a quelli di allora, gli anni Settanta), nel quale vediamo Yann, che si chiama de Kremer, essere dimesso da un ospedale psichiatrico che ricorda molto al suo interno gli interminabili corridoi di Malpertuis e dirigersi apparentemente, in compagnia di una ragazza che ha gli stessi lineamenti di Euryale, verso l’uscita. Ma, invece di guadagnare la libertà verso il mondo esterno, lo vediamo entrare in un ennesimo, oscuro corridoio, nel quale viene raggiunto da un altro sé stesso, lo Yann che ha tentato invano di risolvere gli enigmi di Malpertuis.

Se Malpertuis, il film, non lascia il segno, ciò purtroppo è dovuto a una quasi totale assenza di tensione, aggravato il fatto da una debole struttura narrativa che non riesce a plasmare insieme i tanti temi, e sottotemi, disseminati nel plot. Un vero peccato, perché Kumel ha un notevolissimo talento visuale e molte sono le sequenze efficaci, isolabili e forse degne di miglior contesto. La lunga scena d’apertura ambientata tra i vicoli della città portuale, che intelligentemente fa già presagire l’inquietudine tentacolare della casa maledetta, di sicuro sarebbe piaciuta a Jean Ray che ci avrebbe riconosciuto il suo zampino, così pure per l’unica altra scena girata non a Malpertuis, ma ancora ripresa nel bordello del “mondo esterno”, durante la quale Yann ha uno snervante incontro con tre prostitute mascherate: veri e propri inserti onirici, incubi alla Dalì e junghiani, che echeggiano in modo efficace i temi della pellicola. La casa, poi, è una protagonista di tutto rispetto: enorme, minacciosa, “incomprensibile dall’interno” nelle sue diramazioni che paiono infinite e speculari, con corridoi ed angoli assurdi (la caverna di Lampernisse, quest’ultimo in realtà Prometeo che conoscerà la sua fine mitica in un’altra scena da ricordare, forse inconsapevole omaggio alla ferocia primordiale dei pennuti di Alfred Hitchcock), soffocante e claustrofobica, un vero “mostro” in pietra, che forma un perfetto contesto per le atrofizzate vite di coloro che la abitano, antichi dei ora divenuti piccoli e ottusi rappresentanti di una sciocca middle class, che spendono il loro tempo a contare di continuo dei danari che non potranno mai investire e a dilaniarsi l’un l’altro in sciocche o tragiche baruffe. Al punto che nasce il sospetto che gli abitatori di questa “tana della volpe” siano divenuti così mediocri per loro stesso merito, senza l’intervento del negromante Cassave. Altre scene da ricordare: la prima visita di Yann al laboratorio di Filarete, una scoperta terrificante all’interno di una trappola per topi, un passaggio triste e struggente quando Euryale si rende conto che la lucertola che sta accarezzando si è, poveraccia, tramutata in pietra. Purtroppo, come abbiamo già accennato, mancano tensione e sense of wonder e – d’accordo che il labirinto è uno dei sottotesti – spesso il continuo perdersi in Malpertuis, come l’altrettanto perdersi in quel mondo esterno, portuale e limaccioso, che di Malpertuis è specchio fedele, sembra più far parte di un gioco intellettuale fine a sé stesso piuttosto che dimostrarsi punto focale di quell’affascinante ragnatela di misteri da disvelare che nel libro di Ray era ragione di fascino pressoché morboso. A dire il vero, poi, ci sono zone del film, che avrebbero ben meritato un diverso approccio: dalla mancanza quasi assoluta di approfondimento delle psicologie dei vari personaggi, alla sequenza finale del disvelamento delle identità degli “Dei” (letteralmente gettata via, mentre doveva fungere da culmine), all’inutile ed irritante conclusione contemporanea, che suona quanto mai posticcia e fuori tema – Jean Ray l’avrebbe tagliata!

Qualche attore, poi, ci mette del suo per non far funzionare la macchina a dovere. Orson Welles, come spesso succedeva per alcuni suoi ruoli “secondari ma importanti”, sembra essere capitato dalle parti del set per caso, recitando a letto le sue battute con aria ironica e annoiata, ben conscio forse che, se la sceneggiatura avesse previsto una sua partecipazione assai più cospicua, il Cassave che ne sarebbe uscito, avrebbe messo in angolo anche la stessa, incombente presenza di Malpertuis. Mathieu Carrière, nel ruolo di Yann, è espressivo come la statua di pietra in cui si trasformerà per effetto dello sguardo di Medusa. Menzione al merito invece per il tour de force di Susan Hampshire, impegnata nel quadruplice ruolo di Nancy, Euryale, Alice e della ragazza del finale contemporaneo che accompagna de Kremer al suo ultimo labirinto. Notevolissimi, invece, risultano Michel Bouquet, nel ruolo di Charles Dideloo, una perfetta sintesi fra Uriah Heep ed un pervertito sessuale vittoriano, e Jean-Pierre Cassel che dona a Lampernisse una stralunata e selvaggia mobilità, che fa di lui il vero “alieno” della composita “famiglia” di Malpertuis. Curosità per i cinemaniaci sfegatati: nel film ci sono due brevi, e fulminanti, apparizioni, nel ruolo della prostituta Bets, dell’allora bellissima Sylvie Vartan, reginetta del rock francese in coppia con il marito Johnny Halliday.

In conclusione, come spesso ci tocca scrivere quando trattiamo dei rapporti tra cinema e letteratura, a quando Jean Ray sullo schermo? Sì, lo sappiamo, in buona parte è un falso problema. Ma Jean Ray ha prodotto, da par suo, una sterminata mole d’inesplicabili incubi di grande e “moderna” pregnanza, ed il cinema, soprattutto negli ultimi anni, sembra stagnare in profonda crisi tematica. E’ così azzardato auspicare un magico incontro?

About Danilo Arona
Danilo Arona (Alessandria, 28 maggio 1950) è uno scrittore, giornalista e saggista italiano. Per anni si è occupato di narrativa fantasy e mistery, tenendo conferenze sulla letteratura fantastica e collaborando alla scrittura di sceneggiature. Ha scritto saggi sul cinema dell'orrore e su alcuni esponenti di punta di questo tipo di cinema, quali Wes Craven e Stephen King. Ha pubblicato, tra gli altri, con la Mondadori, Marco Tropea, Gargoyle Books, Corbaccio, Dario Flaccovio e Mezzotints.

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