Cinema Intervista a Stefano Bessoni

Intervista a Stefano Bessoni

Krokodyle si presenta come una seduta di psicoanalisi, una sorta di confessionale, un’autobiografia in forma macabra e fantastica.

Dopo gli esigui consensi ricevuti per Imago Mortis,  il regista nostrano Stefano Bessoni è stato accolto da calorosi applausi al Fanta Festival di Roma per Krokodyle, il suo nuovo film. La redazione di Horror.it ha avuto il piacere di intervistarlo e di ottenere in esclusiva rivelazioni sui retroscena del suo ultimo lavoro.

Salve Stefano. Ci racconta come nasce il progetto di Krokodyle?

Semplicemente per esigenza. Non sono mai stato soddisfatto di Imago Mortis perché è stato un progetto molto lungo durante il quale ho dovuto accettare delle imposizioni assurde. Ad esempio: il mio script è stato sconvolto, manipolato e martoriato e il montaggio mi è stato addirittura tolto di mano. Nonostante tutto però, sono riuscito a mantenerne l’impianto visivo, che mi rappresenta e che sento completamente mio. Il film comunque è stato proiettato al cinema, e ha ricevuto contemporaneamente critiche e consensi. Per questo sentivo la necessità di creare qualcosa di veramente mio, provavo il bisogno di esprimermi in tutta libertà e di creare qualcosa che mi rappresentasse. Krokodyle, infatti, si presenta come una seduta di psicoanalisi, una sorta di confessionale, un’autobiografia in forma macabra e fantastica. Grazie all’aiuto di amici fidati sono riuscito a girare il mio nuovo film, un film fatto dalla nuova armata Brancaleone! (ride)

Visto i precedenti, è stato difficile?

Decisamente si perché volevo uno standard qualitativo molto alto. Come dicevo prima, chiunque abbia lavorato per il film ci ha messo tutto se stesso… In un certo senso, siamo stati tutti co-produttori: sapevamo il giorno in cui sarebbero iniziate le riprese ma non quello in cui sarebbero finite! Ognuno c’ha messo parte della sua vita nella realizzazione del film: ad esempio la casa e gli oggetti ripresi sono davvero miei. Diciamo che Kaspar è il mio alter ego ringiovanito, un regista che vive di sogni e la cui anima nera è Bertolt. Proprio come in Imago Mortis, avevo bisogno di riflettere sul mondo dell’immagine.

In Krokodyle, viene detto che “Il vero filmaker è colui che sa anche disegnare”. Lei sa disegnare Stefano?

Assolutamente si. Direi che questa è una mia presunzione, forse l’unica pecca che mi sono concesso. Tutti i registi che stimo sono disegnatori e hanno un campo visivo ben delineato: Greenaway, Burton, Gylliam  e Del Toro. Per ognuno di loro, puoi leggere quello che poi vedi rappresentato. Proprio come loro, io non sono un regista dedito a virtuosismi registici ma preferisco concentrarmi su una presa visiva decisa. Sono fermamente convinto che I fratelli Grimm siano stati i primi registi della storia del cinema, i primi che hanno scavato fino alle radici antropologiche della fiaba senza travisarla.

In Krokodyle si parla dell’ultima immagine che vede un cadavere. È un richiamo ad Imago Mortis, vero?

Assolutamente si. Volevo collegare i due film per fare in modo che Krokodyle potesse riscattare quelle orribili modifiche che sono state apportate allo script originale di Imago Mortis.

Anche questo film si presenta come un discorso metacinematografico. Che ci dice al riguardo?

Io ho sempre ritenuto giusto raccontare ciò che si conosce bene. Non riesco ad immaginare personaggi che non mi rispecchiano. Il discorso, quindi, deve necessariamente essere metacinematografico. Ce n’era una bozza in Imago Mortis e in Frammenti, qui viene sviluppato maggiormente e nel mio prossimo film ci sarà di nuovo. D’altronde fa parte della riscoperta del cinema moderno. Il cinema deve far par parte del cinema, c’è poco da fare. In una recensione, ilblogger ha definito “paturnie esistenziali” i miei discorsi trasposti nei vari dialoghi dei film. Sa una cosa? Non mi offendo, mi piace!

Lei è uno dei pochi registi italiani che, dopo tante fatiche, riesce a fare cinema. Che consiglio da ai nuovi aspiranti?

Gli consiglierei di non lasciarsi intimidire mai da nessuno e di tenere duro. Non bisogna mai credere a tutto quello che dicono i produttori che vorrebbero solo cose semplici e immediate. Il pubblico va educato visivamente e concettualmente. Basta tette e culi. Per 5 minuti va bene, ma basare un film solo su quello mi sembra davvero eccessivo… Insomma, se devono regalare agli spettatori un contentino, lo facciano, ma vadano oltre!

Ultima domanda. Perché Lei si dichiara un regista del macabro invece che dell’orrore?

Perché l’horror, oggi, ha assunto un’accezione in cui non mi riconosco. Se ci riferissimo all’horror degli anni ’50 e ’60, allora, accetterei volentieri, ma oggi i film dell’orrore sono solo splatter e torture porn, lontani dalla poeticità originaria. Se dovessi collocarmi, direi che mi posizionerei tra i Mostri della Universal e quelli della Hammer. Insomma, io mi autodefinisco un regista macabro e mortifero che si riconosce nella letteratura romantica ottocentesca e nel cinema tardo espressionista.

About Martina Calcabrini
Ha ereditato l'amore per il cinema horror quando era ancora in fasce. La passione per le creature mostruose, per l'ignoto e per l'oscuro le scorre nelle vene e le permette di affrontare qualsiasi Mostro della notte...

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