Editoria L’Alba degli Zombie: intervista agli autori

L’Alba degli Zombie: intervista agli autori

Approfondiamo insieme ai tre autori, Danilo Arona, Selene Pascarella e Giuliano Santoro, la genesi del nuovo saggio firmato Gargoyle e dedicato all’universo degli zombie.

Non posso che cominciare presentandovi ai lettori. Chi sono Danilo Arona, Selene Pascarella e Giuliano Santoro?

D.A.: Danilo Arona, classe 1950, giornalista, scrittore e qualche altra cosa che qui non è importante sottolineare. Ah, sì, appassionato cinefilo che ogni tanto qualche editore ingaggia a proprio rischio e pericolo.
G.S.: Giuliano Santoro è un giornalista e fa parte della redazione del settimanale “Carta”. Si occupa principalmente di politica e società, senza disdegnare qualche capatina nel cinema.
S.P.: Selene Pascarella è un’appassionata della fiction seriale sotto ogni sua forma, svezzata in tenerissima età con dosi massicce di horror e fantascienza, dedita allo studio dei linguaggi televisivi e cinematografici. Di mestiere fa la giornalista, che è il lavoro-schermo perfetto per una serial addicted.

In questi giorni è arrivato nelle librerie il vostro saggio L’alba degli zombie. Voci dall’Apocalisse: Il cinema di George Romero. Ci raccontate brevemente di cosa si tratta?

D.A.: Di un lavoro a sei mani sul cinema zombesco di George Romero e sulle sue ricadute/influenze al cinema, in letteratura, nel costume e via dicendo. Un libro curioso e non allineato.
G.S.: Nei paesi anglosassoni le librerie sono invase da saggi molto colti e da persino titoli accademici che usano la metafora dello zombie per spiegare il mondo attuale. Ci piace pensare che questo sia il primo volume italiano di questo filone. L’Occidente, proprio nel momento in cui alcuni sostenevano che il suo progetto di egemonia sul pianeta si fosse dispiegato completamente, è rimasto intrappolato dentro le dinamiche che aveva scatenato. Da questo punto di vista siamo davvero di fronte alla fine del mondo, o almeno alla fine di quel mondo. Gli zombie sono utilissimi per comprendere questo scenario.
S.P.: L’alba degli zombie è un viaggio d’esplorazione del nostro mondo, popolato di zombie. Non solo un’opera monografica sul cinema di Romero, né semplicemente un saggio su i morti viventi. Piuttosto un’autopsia collettiva e senza anestesia del nostro corpo sociale, che è (non) morto e non lo sa.

Come è nato il libro?

D.A.: Il libro mi è stato proposto in prima battuta da Paolo De Crescenzo di Gargoyle Books, intenzionato a pubblicare un saggio nel 2011 perché secondo lui gli zombie sarebbero tornati alla grande sugli schermi e in letteratura. Paolo è stato un perfetto profeta. A pochi giorni dalla proposta, Selene mi ha contattato per farmi leggere lo schema di un lavoro a quattro mani sugli zombie che stava preparando con Giuliano. A questo punto le ho proposto di unire le forze, anche perché data la diversità e la trasversalità degli intenti, ne sarebbe uscito a mio parere un libro di assoluto interesse. Ha risposto di sì ed eccoci qui.
G.S.: Io e Selene, oltre a conoscerci da parecchi anni, abbiamo una frequentazione quotidiana in uno spazio virtuale, insieme a una dozzina di amici. Stiamo davanti al computer perché siamo tutti operai immateriali. Lavoriamo con i segni e con le parole in differenti campi, dal giornalismo all’informatica passando per il lavoro di traduzione e il marketing e la ricerca accademica. In questo spazio, che pare ozioso ma è produttivo e stimolante, ci siamo accorti che lo zombie veniva citato sempre più spesso, commentando i fatti del giorno. Allora abbiamo pensato fosse il caso di riflettere più approfonditamente. Così abbiamo scritto un progetto di saggio, che è stato accolto da Danilo Arona prima e da Gargoyle dopo.
S.P.: Tutta colpa del meme zombie. Se ne va in giro a divorare cervelli. Quando io e Giuliano, che da mesi cercavamo di prendere le misure all’onda di undead che ci stava sovrastando, abbiamo condiviso le nostre conclusioni in progress con Arona ci siamo sentiti rispondere: «Anche voi zombie?». Il resto è merito della ricettività di Danilo.

Siete tre autori abbastanza diversi, ognuno specializzato in un campo preciso. In che modo vi siete divisi il lavoro?

D.A.: Loro due se l’erano già diviso in modo egregio e funzionale. Io ho considerato il mio apporto alla stregua di una lunga e funzionale introduzione, dedicata anche a chi non conosce il cinema di George in maniera specifica. Così è avvenuto.
G.S.: La divisione è stata spontanea, risponde molto alle cose di cui ci occupiamo per professione. È legata alle nostre biografie culturali. Danilo è un narratore di genere. Io un giornalista molto atipico, cerco di muovermi a cavallo tra politica e cultura. Selene è esperta di linguaggi televisivi e cinematografici.
S.P.: Tutto è avvenuto abbastanza naturalmente le nostre predisposizioni personali ci hanno portato su terreni diversi da cui periodicamente ci scambiavamo missive dal fronte della guerra agli zombie.

Qual è il vostro rapporto con il cinema di George A. Romero?

D.A.: Per me è un regista-specchio. L’ho scoperto a 18 anni ed è invecchiato con me. Come dire, un amico di lungo corso. Con i suoi alti e i suoi bassi, come tutti. Di certo, tra i più seminali e tra i meno fortunati. E’ stato vampirizzato oltre ogni dire da una bolgia di imitatori e di ladri di idee, e ancora oggi che ha più di settant’anni ha il suo bel da fare per mettere assieme i budget. Comunque l’uomo ha ancora molto da dire…
G.S.: Sono molto legato all’immaginario sci-fi e horror degli anni cinquanta, all’Invasione degli Ultracorpi di Don Siegel e ai fumetti di Tales from the crypt. Romero ha saputo traghettare quelle storie nell’epoca contemporanea. Romero è materialista: non si rifugia mai nella metafisica, non fa ricorso a magie o a forme di trascendenza. Questo mi piace molto. Ho assorbito questi codici ascoltando il rock’n’roll. Vedi? Non riesco a parlare di certe cose senza pensare alla musica. Quindi direi che se fossi un metallaro o un rockettaro barocco mi piacerebbero i nomi impronunciabili, le storie gotiche, le leggende fantasy e gli spiritelli trascendenti. Ma siccome amo la sobrietà dei punkrocker ho altri punti di riferimento: sobrietà compositiva, pochi assoli, sangue solo quando occorre e niente pippe metafisiche. Ecco cos’è per me Romero.
S.P.: Tra di noi io sono quella che maggiormente ha “tradito” il canone Romero, eppure sono convinta che il vecchio maestro non si aspetti altro che questo, zombie in continua mutazione che sfuggono, lentamente ma inesorabilmente, a ogni tentativo di ipostatizzazione.

Nel libro sono presenti varie teorie, scientifiche, politiche e antropologiche, sul ruolo degli zombie nella società. Qual è quella che preferite o che vi intriga di più?

D.A.: Mah… non voglio entrare nel terreno di Selene e Giuliano. Per me sono ancora quelli del ’68, ovvero la guerra in casa propria. Lo scontro fra uguali. La massa lercia e affamata che fa paura a quelli che di solito si girano dall’altra parte.
G.S.: Nei nostri saggi cerchiamo di aggredire lo zombie da molti lati. La complessità che gli zombie evocano rimanda alla necessità di usare molti linguaggi e molte teorie, diverse tra loro, per decifrarli. Io parto da una constatazione: il male non è una «cosa» che viene da fuori. Il male è un rapporto sociale – come il potere, lo sfruttamento – che ci attraversa e ci contagia tutti e che dobbiamo sapere combattere in quanto tale. Chiunque rivendichi purezza e separatezza, magari sostenendo che si tratta di combattere sempre qualcosa di «esterno», è un velleitario e/o un pericoloso costruttore di confini. Cioè il vero nemico, uno di quelli che nei film di Romero sono ancora più pericoloso degli zombie: individualisti, razzisti, guerrafondai e guardiani delle frontiere. Sono categorie molto più vicine a noialtri di quanto possa sembrare, non stiamo parlando di fenomeni estremi, pittoreschi quanto marginali. Due dei più lucidi intellettuali contemporanei, Marco Belpoliti e Franco Cassano, hanno sentito bisogno in due libri recenti di usare il concetto di «zona grigia» tra il male e il bene per spiegare la situazione in cui ci troviamo. È un nodo teorico tragico, che rimanda ai racconti che Primo Levi faceva dei lager nazisti – cioè dei luoghi del male assoluto – ne «I sommersi e i salvati». In quel libro, Levi descrive la zona confusa che nei campi di concentramento separa i carnefici dalle vittime, i padroni dagli schiavi: più si abbassa la soglia della dignità umana più è impossibile distinguere il male dal bene. E la vita dalla morte, aggiungo io.
S.P.: Credo che il saggio Theory of International Politcs and Zombie, di Daniel W. Drezner, che usa l’apocalisse zombie come prova del nove delle teorie politiche con cui siamo abituati a interpretare il mondo in torno a noi, dal liberalismo alla dottrina neocon, sia una lettura imperdibile anche e soprattutto per chi non si è mai interessato al genere z.

Romero, nell’intervista di Paolo Zelati presente nel libro, spiega come i suoi zombie non siano altro che lo specchio dei cambiamenti sociali, secondo voi ha mantenuto questa prospettiva in tutti e sei i film dedicati agli zombie?

D.A.: Con assoluta coerenza, certo. Il fatto che Romero – poi vedremo se ce la fa – ne abbia in programma ancora altri due la dice lunga sulla velocità percepita dei cambiamenti sociali. In ogni caso è tutto l’horror che dovrebbe essere il genere che più ragiona sul sociale…
G.S.: Penso di sì. Ogni film di Romero approfondisce un elemento della società che l’ha partorito, avendo però il pregio di non trasformarsi in allegoria stucchevole. Romero semina indizi: sulla guerra in Vietnam, sulla zombizzazione della società americana, sulla corsa agli armamenti, sull’11 settembre, sui nuovi media e sulla natura cangiante dell’uomo. Non si tratta di capire qual è la nostra (presunta) identità, la nostra essenza. Si tratta di capire che siamo soggetti in continuo mutamento. Non ha nessuna importanza cercare le risposte giuste se le domande sono sbagliate. La domanda corretta non è «Chi siamo?» (cosa che spesso porta a disegnare identità escludenti), ma «In cosa ci stiamo trasformando?».
S.P.: Romero è costantemente sintonizzato sulle vibrazioni del mondo intorno, persino più ricettivo col passare degli anni. Survival, da molti sottovalutato, racconta attraverso la perdita di senso della dicotomia umano/zombie e il contrasto tra la piccola comunità e la waste land globale (il tutto in una spiazzante chiave western), lo smarrimento della identità occidentale divisa tra repressione e addomesticamento di un disordine mondiale che rischia di travolgerla.

Cosa pensate della rinascita del cinema zombesco di questi anni? Credete si sia dato vita a un nuovo fenomeno Twilight?

D.A.: Non credo. Secondo me i due filoni sono imparagonabili. Twilight è un’operazione di purissimo marketing pensata e ben oliata a tavolino. Gli zombie, da Romero in poi, vengono dal basso, dall’underground e, fra gli alti e i bassi delle mode, ce li troviamo sugli schermi, ma anche sugli scaffali, da quasi mezzo secolo. C’è poi un’ovvia differenza estetica che va a connotare un target ben preciso e non confondibile. Peraltro gli zombie ti fanno veramente male se ti azzannano…
G.S.: Onestamente non ne ho idea. Penso comunque che la figura dello zombie sia molto difficile da anestetizzare. Il suo successo dilagante è dovuto proprio alle caratteristiche di cui parlavo prima, non è facile liberarsene!
S.P.: L’onda zombie è la manifestazione di uno tsunami talmente dirompente da non potersi esaurire in un paio di stagioni di sovraesposizione mediatica. Partita quasi un decennio fa, ha ancora molto da dire e per capire esattamente la portata del suo lascito bisognerà attendere che abbandoni la terraferma e quindi rovistare in mezzo ai resti, raccogliere e infine tentare di rimettere tutto insieme. Per allora forse sarà in arrivo una seconda scossa, e magari anche Twilight sarà tornato di moda…

Qual è il vostro film zombesco preferito?

D.A.: L’emozione che mi regalò La notte dei morti viventi in quel lontano luglio del ’69 è ancora qualcosa di irraggiungibile. Se devo votare, voto per lui.
G.S.: Se non consideriamo i sei film di Romero (che ovviamente sono in cima alla lista) consiglio di vedere il bellissimo L’ultimo uomo della terra, film del 1964 di Ubaldo Ragona con un grandissimo Vincent Price che si aggira nel deserto metropolitano del quartiere romano dell’Eur a caccia di zombie.
S.P.: The Night of the Living Dead di Romero, per il cambio di prospettiva. Shaun of the Dead di Edgar Wright, per la stessa ragione. Pontypool di Bruce McDonald per le premesse che si arrischia a mettere in piedi e per le promesse che, purtroppo, non riesce a mantenere. Sono tre…

Il vostro saggio è stato pubblicato dalla Gargoyle Books, ormai punto di riferimento per la narrativa e la saggistica di genere, ma che fatica ancora a entrare nel giro della grande editoria. Qual è il motivo, secondo voi?

D.A.: Gargoyle Books, con tenacia eroica, persegue un progetto coerente e, per ciò che mi riguarda, del tutto condivisibile, quello di dare spazio all’horror autentico… Come si dice in politichese, “senza se e senza ma”, e senza le compromissioni dei vari filoni per teen-ager. E’ ovvio che in un mercato asfittico e in recessione si corrono dei rischi. Il paradosso è che questi rischi si possono chiamare LeFanu o Jack Ketchum, e questo è francamente sconsolante. Gargoyle ha bisogno di tutti i suoi figli, non so se mi spiego. Ma è quel che dicevo più sopra… E’ l’horror autentico. E in Italia, troppe volte, in editoria ci sono stati problemi. Ma loro sono decisi a lottare e noi lottiamo con loro.
G.S.: I motivi sono quelli che sappiamo: i meccanismi di mercato stritolano la piccola editoria. Viviamo nel paese del conflitto di interessi e dei monopoli. Con buona pace di chi si riempie la bocca di parole come «concorrenza» e «liberale». Tuttavia, questo non dev’essere un alibi. Bisogna provarci. Si tratta di sperimentare forme nuove di distribuzione e coordinamento tra operatori del settore (penso all’editoria digitale ma anche alla vendita online) e di avere uno sguardo disincantato eppure ampio: bisogna pensare oltre le nicchie. I circuiti chiusi spesso fanno perdere il senso della misura, ci fanno sottovalutare cose importanti e ingigantire piccole beghe di cortile. Bisogna avere l’abitudine di parlare ai molti, di usare più registri, attraversare territori nuovi. Essere massimalisti, ma con la testa sulle spalle.
S.P.: La “grande editoria” si cimenta con la produzione di genere tenendosi saldamente nei territori più sicuri e battuti. Ma questo non sempre paga. Gargoyle dal 2004 a oggi si è imposta per la sua natura di laboratorio che segue da vicino l’evoluzione della letteratura horror e restituisce al pubblico opere, vedi Varney il vampiro o Vendetta di Marie Corelli, che hanno ancora molto da dire al lettore. La vitalità di questo approccio è la chiave per una relazione  profonda con il pubblico più esperto e per attrarre, attraverso la qualità, quello meno di nicchia. Un percorso lungo il quale le grandi si trovano spesso a inseguire.

Potete raccontarci come è stata la vostra esperienza con questa casa editrice?

D.A.: Siamo amici. Che altro potrei dire? Lo siamo diventati, molto di più, dopo L’estate di Montebuio, il mio titolo più sofferto e al quale sono più legato (e non poteva essere lavorato che da Gargoyle…).  Anche se stanno a Roma e io al nord, con loro mi sento a casa. Esperienza ottima… averne.
G.S.: L’editoria indipendente è il mio mondo da parecchi anni. Quindi sono abituato a vedere gente che fa i salti mortali e sono predisposto a essere tollerante con i disguidi e le difficoltà. Questo non significa che si debba rinunciare alla dignità del proprio lavoro, ovviamente. A Gargoyle ho trovato buone professionalità che si fanno il culo per sopperire alle complicazioni dei «piccoli». Si può dire «professionalità», vero?
S.P.: Dopo che le nostre sei mani – otto contando Paolo Zelati che ha realizzato la bella intervista a Romero – si sono messe all’opera, Gargoyle si è dimostrato subito il luogo perfetto dove portare un contributo multiforme e collettivo come il nostro, a suo modo un esperimento, che solo un laboratorio era in grado di apprezzare e valorizzare.

Chiudo con la consueta domanda sui vostri progetti futuri…

D.A.: Troppi. Dico sempre di sì a ogni richiesta… Permettimi solo di non elencarli per non sembrare un demente esibizionista. Tra i tanti però uno su posso sbottonarmi perché è diverso da tutto quel che ho fatto sino a oggi: la mia prima graphic novel. Horror, ça va sans dire…
G.S.: Continuare a fare questo mestiere senza perdere la libertà.
S.P.: Lavoro a un progetto che unisce due delle mie più grandi passioni: il racconto seriale e la cronaca nera.

About Marcello Gagliani Caputo
Giornalista pubblicista, scrive racconti (Finestra Segreta Vita Segreta), saggi sul cinema di genere, articoli per blog e siti di critica e informazione letterario cinematografica, e trova pure il tempo per scrivere romanzi (Il Sentiero di Rose).

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

Altri articoli:

Leave a Reply

You must be logged in to post a comment.

Horror Community

[captain-sign-up text="Partecipa al gioco"]

Focus on

Categorie degli articoli

ebook gratis


    Ai lettori di Horror.it, regaliamo una ghost story inedita di Andrea G. Colombo. Buona lettura!
  • RSS
  • Twitter
  • Facebook
%d blogger cliccano Mi Piace per questo: