Storia horror italiano Storia del Cinema Horror Italiano – vol. 2

Storia del Cinema Horror Italiano – vol. 2

Dalla stagione dei Vampiri tricolori alla fortunata epopea del peplum-horror ai primi grandi capolavori di maestri come Riccardo Freda e Mario Bava.

I topoi narrativi di cui si accennava in precedenza sono già ben evidenti e codificati nell’opera che unanimemente viene considerata l’iniziatrice del genere, I VAMPIRI (1957) di Riccardo Freda.

LA STAGIONE DEI VAMPIRI ITALIANI

A voler ben considerare, negli anni antecedenti c’erano stati altri tentativi di trasferire in Italia racconti di matrice gotica/fantastica derivati da intuizioni di autori stranieri, dal muto IL MOSTRO DI FRANKENSTEIN (1920) (di cui non restano che tracce residuali) di Eugenio Testa e interpretato da Luciano Albertini (già attore presente in vari melodrammi e proto-gialli dell’epoca) al film di Alessandro Blasetti, IL CASO HALLER (1933), sorta di adattamento sui generis del DOTTOR JEKYLL E MR.HYDE di Stevenson, pellicola così inquadrata dallo storico del teatro italiano Vito Pandolfi: <<interpretato in modo trascinante e nevrotico da Memo Benassi e Marta Abba. Un caso di doppia vita, ispirato nel suo schema al celebre romanzo di Stevenson e nel suo clima a taluni film espressionisti. Il giudice Haller di giorno appariva inflessibile e impeccabile nell’esercizio del suo compito, rigido rappresentante della legge e difensore della società. Di notte cadeva in trance, frequentava gli ambienti della malavita, partecipava alle loro imprese, come il più destro e il più tenace (nel male) dei malfattori. Fino a che, come è fatale nel procedere di queste macchine drammatiche, il giudice non si trova faccia a faccia con se stesso colpevole, con il sopraggiungere della condanna.>>

Altri esempi pionieristici furono certamente il melodramma decadente di Antonio Fogazzaro MALOMBRA (1942), uno dei più interessanti esercizi di cinema calligrafico pre-neorealista, riproposto in chiave goticheggiante attraverso la regia cupa, quasi notturna di Mario Soldati, in cui i temi della reincarnazione, della fatalità, della vendetta d’oltretomba fanno capolino per la prima volta nella cinematografia nostrana; impossibile non citare poi il curioso LA MACCHINA AMMAZZACATTIVI (1948), una delle esperienze di regia meno riuscite del grande Roberto Rossellini (che qui si cimenta in una favola nera in cui il demonio dona a un uomo una macchina fotografica che ha il potere di far “sparire” i malvagi) e il primo vero fantasy italiano, LA CORONA DI FERRO (1947) di Blasetti, in cui l’elemento del fantastico diventa l’essenza stessa della pellicola per metaforizzare i guasti della dittatura tirannica.

Tuttavia nessuno di questi (sporadici) episodi riuscì a farsi veicolo di quelle novità narrative che accennavamo poc’anzi e quindi vero promotore della nascita di un genere come invece seppe fare il film di Freda. I VAMPIRI si avvale della grandezza di alcuni collaboratori di prim’ordine, dalla fotografia di Mario Bava alle scenografie di Beni Montresor. Il risultato è un ottimo prodotto artistico che però non riuscì a sfondare al botteghino. Non inganni il titolo perché il classico di Freda non è un film sui vampiri in senso stretto bensì un riuscito connubio tra sinistri rimandi storici (la vicenda della sanguinaria contessa Erszebeth Bathory), il tipico armamentario gotico anglosassone (maniero fatiscente e scienziato pazzo, Mary Shelley docet), una spruzzata di sano realismo all’italiana dovuto all’innesto nel plot dell’inchiesta poliziesca e, soprattutto, del rapporto tra femminilità e mostruosità giocato sul confine tra proto-erotismo e morbosità: proprio in questo sta la modernità dell’autore, nel collocare il male, la follia, l’orrore all’interno della psiche e nel disegnare una realtà amara in cui le pulsioni umane sono inarrestabili. Nonostante la pregevolezza di molti interventi tecnici, come la trasformazione dell’attrice Gianna Maria Canale, realizzata da Bava con lo stesso metodo usato da Ruben Mamoulian per il JEKYLL di Frederic March, I VAMPIRI non ebbe alcun seguito immediato nonostante l’indubbio pregio di aver gettato il sasso nello stagno.

Parodie sgangherate a parte (vedi ad esempio TEMPI DURI PER I VAMPIRI (1959) di Steno con Renato Rascel) bisogna attendere infatti il 1959 per rivedere un altro film horror italiano, ancora una volta a opera del duo Freda – Bava. CALTIKI (1959) esce sulla scia del successo ottenuto l’anno prima da BLOB (1958) di Stephen Yeaworth interpretato da una star come Steve McQueen. Freda e Bava però non si limitano a riproporre tout court la vicenda narrata dall’epigono americano, tentando di personalizzare la vicenda grazie a una commistione accentuata con il genere fantascientifico (in questo senso dunque ci sarebbero più affinità con un classico della sci-fi come L’ASTRONAVE ATOMICA DEL DOTTOR QUATERMASS (1955) di Val Guest). Il risultato è interessante soprattutto per la resa visiva del film legata alle geniali trovate di Mario Bava in merito a direzione della fotografia e trucchi ottici (il mostro altro non è che un miscuglio di trippa e fango, sapientemente manipolati e fotografati da Bava). Il 1960 rappresenta il vero anno di svolta per il cinema horror italiano con ben cinque produzioni. Vengono realizzati SEDDOK di Anton Giulio Majano, L’ULTIMA PREDA DEL VAMPIRO di Piero Regnoli, LA MASCHERA DEL DEMONIO del geniale Mario Bava, IL MULINO DELLE DONNE DI PIETRA di Giorgio Ferroni e L’AMANTE DEL VAMPIRO di Renato Polselli.

LA MASCHERA DEL DEMONIO mostra tutte le stigmate del capolavoro e rivela al mondo il grande stile di Mario Bava (cineasta tuttora idolatrato da autori contemporanei del calibro di Quentin Tarantino, Tim Burton, John Landis, Joe Dante). Tratto dal racconto il VIJ di Gogol, il film di Bava apre la strada al neobarocchismo gotico, lanciando la scream queen per antonomasia, quella Barbara Steele che diverrà la regina incontrastata del genere. La genialità di Bava si manifesta sotto vari aspetti, connotandosi in primis per la libertà con cui affronta un trattamento di ispirazione letteraria mantenendo però una notevole autonomia narrativa che sfocia in una vera e propria rivisitazione della mitologia horror del vampirismo e della stregoneria. Più ancora che in Freda, nel film di Bava è centrale la tematica del corpo della strega, vera e propria iconografia del male più fetido e deviato. Bava pigia sull’acceleratore, precorrendo i tempi: c’è il sadismo estremo, una spiccata propensione all’atto voyeuristico come gesto di somma perversione e una necrofilia ossessiva che pregna i paesaggi e i personaggi corrodendoli e contaminandoli. La misè-en-scène è un caleidoscopio di eccessi visivi (le torture inflitte dalla maschera di ferro sono sequenze di forte impatto) inseriti in un contesto più tradizionale fatto di nebbie fittissime, alberi nodosi, interni freddi e umidi, cripte oscure e infestate da ragnatele. Il risultato complessivo è di quelli che non si dimenticano. Se L’ULTIMA PREDA DEL VAMPIRO rappresenta una passaggio decisamente poco significativo per il nostro discorso (fatta eccezione per il fatto che il film, nella versione francese, reca delle scene di nudo integrale totalmente censurate in patria) di ben altro spessore è il film di Polselli L’AMANTE DEL VAMPIRO.

Coerentemente con quella che sarà l’ossessione centrale del suo cinema (una lettura radicalmente morbosa della sessualità) Polselli offre in questa pellicola e per la prima volta in assoluto una codificazione del simbolismo sessuale della possessione vampirica. Pur mantenendo intatti gli archetipi narrativi del vampirismo (il sangue come nutrimento, l’efficacia lesiva dei simboli religiosi e della luce solare) Polselli associa l’atto della suzione a quello della possessione sessuale, disseminando di inconfondibili gesti sensuali e maliziosi il comportamento delle vittime del mostro, costruendo una patina di morbosità che non lascia di certo indifferenti. Il film è purtroppo appesantito da numerose scene di ballo (la vicenda vede come protagoniste le ragazze di una compagnia di danza), dilatate nella durata soprattutto per consentire a Polselli di indugiare sulle “grazie” delle giovani donne. Anche il SEDDOK di Majano (dove una giovane ballerina è costretta a curare la deturpazione del proprio viso con una sostanza reperibile solo nella ghiandola pineale femminile) e soprattutto l’ottimo IL MULINO DELLE DONNE DI PIETRA di Ferroni (dove uno scienziato pazzo conserva i corpi di giovani donne mummificandole in pupazzi di cera) proseguono il discorso della deturpazione del corpo femminile e della malvagità umana come rovescio della medaglia di una ricerca ossessiva della perfezione estetica.

Riuscito caleidoscopio di atmosfere, con un notevole impatto scenografico che rimanda direttamente alle prime pellicole di Terence Fischer e alcune immagini esterne che evocano i pittori fiamminghi del tempo che fu, alla pellicola di Ferroni nuoce probabilmente una parte centrale un po’ prolissa a causa della predominanza “verbale” ma il risultato complessivo è decisamente godibile, in particolare grazie a un finale, non inatteso, ma grandioso. Visivamente accattivante e illuminato da una fotografia soffusa e calda che sfrutta le potenzialità del Technicolor, il film di Ferroni raggiunge momenti di alta qualità soprattutto in alcune sequenze chiave (i primi piani del mulino, il carosello a ritmo di carillon con le donne imbalsamate) e grazie a un certo pathos narrativo, cui contribuiscono le buone interpretazioni degli attori, supportati da uno script con ottimi dialoghi, la pellicola si merita, a ragione, il fregio di uno dei migliori prodotti in assoluto del cinema horror italiano.

 

L’ORRORE AL COSPETTO DEGLI DEI

Nonostante l’elevato livello qualitativo di alcuni di questi lungometraggi, i risultati commerciali stentavano ad arrivare: nessuna delle suddette pellicole riesce a entrare nei primi cento film per incasso per l’anno 1960. I motivi sono essenzialmente individuati, dai cineasti dell’epoca, nella tendenza eccessivamente esterofila del pubblico italiano (che, dati del box office alla mano, sembrava invece premiare gli horror della Universal). Problema, questo, che sfocerà nella curiosa trovata di mascherare tutte le produzioni nostrane dietro fantasiosi pseudonimi anglofoni (per cui, ad esempio, Mario Bava diverrà John M. Old, Riccardo Freda si tramuterà in Robert Hampton e via discorrendo) ma soprattutto nella comprensione che l’horror italiano doveva imboccare una strada peculiare e compatibile con il retroterra culturale della nostra popolazione. Il primo risultato di questa chiave di lettura fu quello di iniettare elementi orrorifici in un genere tipicamente italiano, il peplum, che tanti risultati di critica e pubblico stava rastrellando in quegli anni.

Il 1961 è così l’anno di alcuni ottimi esempi , in tal senso: ERCOLE AL CENTRO DELLA TERRA di Mario Bava, MACISTE ALL’INFERNO di Riccardo Freda e il meno riuscito MACISTE CONTRO IL VAMPIRO di Giacomo Gentilomo e Sergio Corbucci. Il film di Bava si pregia, oltre che di alcune intuizioni visive di rilievo, dell’interpretazione indimenticabile di Christopher Lee a cui viene cucito addosso un ruolo assolutamente perfetto per la sua mefistofelica misè-en-scène. Il personaggio di Lico, malvagio cortigiano, cultore di magia nera che aspira a impadronirsi del trono di Ecalia e che per realizzare i suoi sinistri obiettivi non esita ad attentare alla vita e alla ragione della bella Deianira, legittima erede al trono, nonché promessa sposa dell’eroe Ercole, è un mix riuscito delle capacità recitative di Lee e della maestria registica di Mario Bava: Lico viene tratteggiato come una figura ambiguamente e allusivamente vampiresca, desideroso di attingere dalla bella Deianira non solo il potere ma anche la sua linfa vitale e in questa sua bramosia appare addirittura più maleficamente convincente dello stesso Conte Dracula interpretato qualche anno prima dall’attore inglese. Una raffigurazione che ha il suo momento apicale nella sequenza conclusiva del film, quando Lico affronta Ercole nei terreni dell’Averno scatenandogli contro un orda di morti viventi, dando libero sfogo a tutta la sua malvagità e follia sanguinaria.

L’accuratissima fotografia di Mario Bava e le sue ardite inquadrature conferiscono quel tocco in più di malsano e alieno che il personaggio del negromante riesce ad evocare: gli esperimenti di colore e i filtri, nonché l’utilizzo del fumo di scena (espediente tecnico particolarmente gradito dall’autore, teorico delle atmosfere tetre e degli ambienti asfissianti) hanno luogo soprattutto quando in scena c’è per l’appunto il luciferino principe d’oltretomba Christopher Lee, mentre spariscono all’apparire del muscoloso Ercole (interpretato dall’ex-calciatore Reg Park). Una curiosità, questa, per capire quanto nella vicenda (e nel gradimento personale di Mario Bava) fosse centrale la figura di Lico: l’intento dell’autore e della produzione era quello di sfruttare al massimo, dal punto di vista commerciale prima ancora che narrativo, la figura di Christopher Lee, assurto agli onori della cinematografia horror per la sua interpretazione nel DRACULA (1959) di Terence Fisher. A conferma di ciò segnaliamo che Bava aveva intenzione di titolare il film ERCOLE CONTRO IL VAMPIRO ma poi, a causa di un disguido tecnico legato ai tempi burocratici, alla Siae venne registrato prima il film di Corbucci MACISTE CONTRO IL VAMPIRO (prodotto di lignaggio decisamente inferiore). Per ovvi motivi si imponeva dunque la scelta di un titolo differente. Fortunatamente si optò un titolo egualmente evocativo quale è ERCOLE AL CENTRO DELLA TERRA. Mentre il film di Gentilomo/Corbucci ha essenzialmente il pregio e l’interesse di inserire il mito vampirico all’interno della cosmologia peplum dell’epoca, adottando numerose sequenze orrorifiche molto violente e crudeli ed avvalendosi delle splendide grazie di Gianna Maria Canale, ancora alle prese con una vicenda di succhia-sangue, senza però raggiungere i livelli espressivi dell’opera di Bava, è doveroso soffermarsi con attenzione sul MACISTE ALL’INFERNO di Freda.

Perché se in Bava e Corbucci è l’horror che contamina il peplum, Freda fa l’opposto immettendo elementi storico mitologici (Maciste, Prometeo, gli Dèi, l’Averno) in un contesto decisamente orrorifico. Lo stesso incipit della vicenda è emblematico laddove si racconta della morte sul rogo di una strega, con annessa maledizione perenne per la popolazione colpevole di quell’atto di giustizia sommaria, e delle tragiche vicende di una giovane discendente della megera. Un prologo che influenzerà non poco una pellicola di un paio di anni successiva, quel LA CITTA’ DEI MOSTRI di Roger Corman che è oggi considerato un classico dell’horror e che deve parecchio agli spunti frediani. L’autore gioca con lo spettatore spiazzandolo con una sovrapposizione anacronistica dei piani temporali: tutta la vicenda è infatti ambientata nel Medioevo ma l’eroe è incarnato da quel Maciste tipico dell’età dorica ellenica e davvero sorprendente è l’effetto straniante di questo espediente. Il Maciste di Freda ha a che fare con un mondo diverso rispetto a quello storicamente a lui consono dove elemento peculiare era la sua forza bruta. Nella sua lotta contro la strega immortale non saranno i muscoli bensì il cervello, la psicologia e soprattutto la passione (Maciste vince la sua battaglia facendo innamorare di lui la terribile avversaria) le armi con cui salvare la situazione. Un plot insomma davvero inusuale e intrigante, condito da trovate scenografiche (le grotte di Castellana) suggestive ed evocative a fare da cornice ad alcune sequenze proto-splatter (un dannato condannato a farsi sviscerare in eterno da rapaci infernali) per un risultato complessivo degno di menzione speciale.

Sull’onda del successo commerciale di questi tre film, che convincono i produttori a tornare a credere nel genere horror, altri proseguono sulla strada della contaminazione col peplum: nel 1962 Guido Malatesta dirige MACISTE CONTRO I MOSTRI, film di ambientazione preistorica che si avvale degli effetti speciali di Carlo Rambaldi, particolarmente amato in Francia, mentre l’anno successivo vedono la luce alcune pellicole minori quali ERCOLE CONTRO MOLOCH di Giorgio Ferroni (storia del semidio greco in lotta con la malvagia e sanguinaria divinità micenea), URSUS NELLA TERRA DI FUOCO di Giorgio Simonelli (da segnalare per alcune scelte scenografiche dall’impatto decisamente inquietante e macabro) e URSUS NELLA TERRA DEI KIRGHISI, co-diretto da Antonio Margheriti e un esordiente Ruggero Deodato in cui ampio spazio trovano elementi orrorifici di carattere sovrannaturale. Tuttavia questa strada dell’horror-peplum venne ben presto a esaurirsi perché ancora una volta grazie a Riccardo Freda l’attenzione del pubblico torna a concentrarsi sull’indagine dei lati oscuri della natura umana.

FILMOGRAFIA

  1. IL MOSTRO DI FRANKENSTEIN (1920) di Eugenio Testa
  2. IL CASO HALLER (1933) di Alessandro Blasetti
  3. MALOMBRA (1942) di Mario Soldati
  4. LA MACCHINA AMMAZZACATTIVI (1948) Roberto Rossellini
  5. LA CORONA DI FERRO (1947) di Blasetti
  6. I VAMPIRI (1957) di Riccardo Freda
  7. TEMPI DURI PER I VAMPIRI (1959) di Steno
  8. CALTIKI (1959) di Riccardo Freda
  9. SEDDOK (1960) di Anton Giulio Majano
  10. L’ULTIMA PREDA DEL VAMPIRO (1960) di Piero Regnoli
  11. LA MASCHERA DEL DEMONIO (1960) di Mario Bava
  12. IL MULINO DELLE DONNE DI PIETRA (1960) di Giorgio Ferroni
  13. L’AMANTE DEL VAMPIRO (1960) di Renato Polselli
  14. ERCOLE AL CENTRO DELLA TERRA (1961) di Mario Bava
  15. MACISTE ALL’INFERNO (1961) di Riccardo Freda
  16. MACISTE CONTRO IL VAMPIRO (1961) di Giacomo Gentilomo e Sergio Corbucci
  17. MACISTE CONTRO I MOSTRI (1962) di Guido Malatesta
  18. ERCOLE CONTRO MOLOCH (1963) di Giorgio Ferroni
  19. URSUS NELLA TERRA DI FUOCO (1963) di Giorgio Simonelli
  20. URSUS NELLA TERRA DEI KIRGHISI (1963) di Antonio Margheriti e Ruggero Deodato

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