Approfondimenti Note su “Il Diacono”

Note su “Il Diacono”

L’horror italiano da anni è impegnato in un’ardua e difficile tenzone.

Conquistare quella sostanziosa fetta di pubblico che non compera il genere per partito preso se l’autore esibisce nel cognome i suoi normali ascendenti nazionali. Non è storia nuova. Se qualcuno in età avanzata si ricorda di come nacque al cinema l’imprescindibile filone del western all’italiana, si rammenterà forse che Sergio Leone firmò Per un pugno di dollari come “Bob Robertson”, non certo per vergogna ma per favorire il destino commerciale di un film, sulla carta, considerato anomalo.

O, andando ancora indietro nel tempo, si potrebbero citare tornando all’horror letterario i leggendari “Racconti di Dracula”, pubblicazione da edicola di Farolfi Editore, dove i vari autori anglosassoni erano tutti straordinari professionisti della parola di nostrana ascendenza. O, venendo più in qua, potremmo menzionare i pochi numeri della collana, sempre da edicola, chiamata “Maniac”, in cui certi autori che si presentavano come Steven H. Farmer Frank Crawford erano in realtà gli amici, antesignani per il genere, Massaron e Nerozzi. Senza dimenticare un certo Frederick Kaman, ovvero l’incommensurabile uomo dai mille volti, Stefano Di Marino.

Sì, ho capito. Sto già scantonando. Ma l’antifona è chiara. L’horror italiano ha sempre dovuto fare  i conti con dei problemi d’identità. Nonché una storia alle spalle di “tentativi”. Qui, dove sto scrivendo, possiedo una biblioteca sul punto di accartocciarsi su sé stessa soltanto formata da tentativi italici. Editoria alta e, per capirci, underground. Quasi tutti tentativi con un seguito editoriale – i famosi numeri che “contano” – dal fiato cortissimo. E dentro ci stanno cose straordinarie che non inizio neppure a citare, perché poi giustizia imporrebbe di citare tutti. Però, a volo radente sui marchi editoriali, leggo: Camunia, ACME, Addictions, Larcher, ADNKronos, Tranchida, Il Foglio Letterario, Flaccovio e altri ancora. Senza ignorare che sono usciti sporadici horror italiani, anche presso le cosiddette major. Una situazione, a dir poco, instabile almeno sino all’avvento di Gargoyle Books, inizialmente deputata a pubblicare solo autori stranieri, ma poi apertasi per assoluta convinzione al nostro mercato interno forte di autori di notevole prestigio (Dimitri, Manfredi, Vergnani e il duo Pezzini/ Tintori sul fronte saggistico). Fermi restando che un autore italiano nell’identico catalogo è destinato a vendere di meno di un suo collega americano per il pregiudizio di cui sopra, la politica della casa editrice romana ha di fatto inaugurato un percorso nel quale è legittimo intravedere qualche barlume di stabilità e di allargamento di confini editoriali: da Einaudi a Marsilio, da Salani alla Nord, si sono riscontrate uscite non di poco conto nel  genere praticato dai “nostri”. Senza dimenticare quella perla d’eccellenza che risponde al nome di Edizioni XII, che ha concesso all’horror e al fantastico italiano tutto lo spazio possibile, e il generosissimo tentativo, ancora da edicola, messo in piedi da Alan D. Altieri con la collana ibridante “EPIX” nella quale gli autori italiani hanno avuto grande vetrina, ma – a parere esclusivo di chi scrive – sono stati ingenerosamente ripagati.

La sto prendendo alla lontana, certo. E il pensiero di stilare qui, in poche righe, la storia ricca di traversie dell’horror italico, non mi sfiora neppure, per quanto ne sia già uscito un piccolo Bignami. Il fatto è che il romanzo di esordio di Andrea G. Colombo Il Diacono, ancora edito da Gargoyle Books, si porta dietro tutte le considerazioni sin qui esposte. Grazie soprattutto ai suoi contenuti che sono tanti e che ora tenterò di vagliare.

Sgombero subito il campo da un paio di maliziosi sospetti che vi stanno frullando in testa sin dalla terza riga. Il primo è quello che Andrea sia notoriamente un mio amico – lo è, e che ci possiamo fare?… -, perciò del libro di un amico bisogna, sempre e comunque, parlare bene. Il secondo, ovvio: chi vi scrive frequenta da eoni la narrativa horror come autore (e come saggista, e pure per Gargoyle Books…) e di conseguenza in questo cortile ce la stiamo cantando e suonando tra di noi.

Non è esattamente così. Per motivi anagrafici e per congiuntura di tempo (quello che mi manca sempre da quando sono al mondo), non faccio parte di quel mondo strambo e per me assai poco comprensibile che si scaglia a razzo da alcuni blog contro gli scrittori di horror italiani, accusati di essere uno dei peggiori mali del pianeta. Il mondo in cui sto io è situato agli antipodi: nel senso che in linea di principio degli scrittori horror italiani penso tutto il bene, anzi il meglio, possibile. Poi chiunque, per diletto o per lavoro “critico”, ne avrà ben donde per separare il buono dal cattivo. Con certe “sole” che arrivano dal mercato americano, come si fa a vivere di preconcetti senza senso? Ma poi dico… Dylan Dog? Già, lui… Chi l’ha inventato?

Ritorno in strada, scantonare è il mio mestiere. Ma volevo solo dire che il libro di un amico può anche essere stramaledettamente brutto. Una cazzata immonda da mollare a pagina 3. Se l’amicizia è autentica, discriminando per forza tra gusto personale e un’assennata capacità oggettiva di giudizio, all’amico devi sciorinare la santa verità. Quindi per forza non si è affatto costretti a parlare “bene” del lavoro di un amico. E poi, grazie agli Dei dell’Altro Dove, Andrea non mi è così affine. E mi sembra giusto. In passato ci siamo fatti pure qualche notevole litigata. Il Mascellone, anche famoso come il Bruce Campbell della bassa Brianza, per quanto Gemelli come il sottoscritto, deve possedere un ascendente dalle parti del Sagittario. Molte sue posizioni, spesso, non conoscono né dubbi né sfumature, fattore per me filosoficamente improponibile.
Stop it
, sto anche scherzando, spero sia chiaro.

Allora, perché Il Diacono fa storia? Perché è un esempio mirabile di Memoria-Specchio, alla Jacques Lacan, famoso e controverso psicoanalista francese, ma anche massimo tra i filosofi dei nostri tempi. Sparo alto, lo so. Invece il libro, all’apparenza – mai farsi ingannare però dalle apparenze – spara basso, solleticando la pancia dei lettori. E allora?
Rubando l’esempio a due illustri studiosi del pensiero lacaniano[1], capirete benissimo l’esempio, il fine del mio ragionamento e la messa in campo, non so quanto consapevole ma non importa, delle innumerevoli componenti “ctonie” de Il Diacono.

Seguite il discorso e, mentre lo fate, pensate al bambino che giace nello scrittore e che si forma in progressione, dai suoi albori di artista infante, dinanzi alla cornice schermica della pagina scritta (il foglio, lo schermo del PC…).

“Tra i sei e i diciotto mesi il bambino non ha ancora padronanza del proprio corpo; non ha controllo dei suoi movimenti e non ha la percezione del suo corpo come un’unità, un intero. Il bambino ha, piuttosto, esperienza di un corpo in frammenti, in pezzi: qualsiasi parte si trovi all’interno del suo campo visivo esiste finché lui la può vedere, ma scompare non appena il bambino non la vede più. Egli può vedere la sua mano, ma non sa che la mano appartiene a lui, la mano potrebbe essere di chiunque, o di nessuno. Però il bambino a questa età  può immaginare sé stesso come un tutt’uno, perché ha visto le altre persone, e le ha percepite come esseri unitari. A un certo punto di questo periodo il bambino si vedrà riflesso in uno specchio. Guarderà la sua immagine riflessa, si volterà verso una persona reale –  sua madre o qualsiasi altra persona – e riguarderà  l’immagine allo specchio. Queste azioni gli conferiranno la sensazione che anche lui è un essere integrato, un intero. Si muoverà dalla percezione di un corpo frammentato a una visione di sé come un tutto integrato. Alla fine, ciò che il bambino vede nello specchio, questo essere unitario, diventerà un ‘Sé’, designato con la parola ‘IO’.”

Chiaro? Non del tutto, suppongo. Ma occorre tenere presente che uno scrittore di genere, soprattutto di genere horror – all’esordio della sua attività (e questo è il primo romanzo di Andrea G. Colombo) – non ha, come il bambino lacaniano, percezione del proprio corpo “scriptorio” come un unicum. Quello che mette in campo sono frammenti, pezzi vaganti del suo immaginario di cui lo scrittore ha esperienza, diciamo così, “precaria”. Soltanto quando lo scrittore si vede riflesso nello specchio creativo, i pezzi vanno a formare la Cosa Scritta che è al contempo lui e dentro di lui. Il romanzo diventa l’IO. Colombo diviene il Diacono. Qualcun altro diviene Perdinka.

Attenzione, qui stiamo parlando di processi simbolici profondi, alla fine dei quali l’inconscio emerge come un Mostro dell’Id per materializzarsi in quel campo immaginario – ma forse unificato – che è il mondo poetico dove la Forma diventa Sostanza. Processi di cui verosimilmente lo scrittore non si rende conto. Altrimenti tutti dovremmo fare i conti, reali, con il nostro personale Richard Stark.
Ciò vale per Andrea Colombo. E ciò è valso in tempi non sospetti per un tale che si chiama Stephen King. Ecco quel che scrivevo nel ’97 a proposito del cinema tratto, allora, dai primi romanzi del Re[2]:

“Il cinema Kinghiano è sempre l’Altro, una sorta di ‘oggetto perduto’ alla Lacan, (una memoria-schermo di una trentina d’anni di letteratura e di cinema che King, a suo dire, ha dapprima assorbito passivamente e poi ritrasformato, dichiarandosi l’interprete dell’angoscia generazionale di molti americani suoi coetanei), che il cinema necessariamente non può far altro che disattendere.”

Mi pare che, nonostante gli anni e la distanza fra Colombo e King, il discorso sia analogo. E soprattutto, emerge quel dato che il bambino lacaniano ha trasmesso con disarmante semplicità: lo scrittore di horror, all’inizio del suo percorso, è un contenitore di frammenti che provengono da altri tempi, altri luoghi e altri media.

Per nessun autore horror l’iniziale campo d’azione è neutrale. Per nessuno si può parlare di sostanza grezza e/o inedita. Chiunque, in un dato momento della propria vita, decida di dedicarsi alla letteratura horror, poi deve fare i conti con i pezzi vaganti dentro di sé di altrui immaginari. L’horror è sempre autoreferenziale e la sua “condanna a vita” è quella della perpetua riattualizzazione degli Archetipi. Quanto sta accadendo negli ultimi anni all’immortale figura del Vampiro – che torme di adolescenti e di giovani, lettrici soprattutto, tentano di sottrarre al reame legittimo dell’horror a favore di un altro genere che non deve troppo orripilare,  ma di cui personalmente trovo orripilanti le definizioni come “urban fantasy” o “paranormal romance” – è sintomatico. E peraltro conferma che facciamo, alla fine, sempre i conti con i soliti Archetipi e le solite tracce archetipiche di storie da riproporre per l’eternità. Salvo quando, e può succedere, i frammenti non diano vita a un mostro di Frankenstein mai visto prima. Ogni tanto accade. O sembra accadere.

E’ in questo senso che il lavoro di Colombo – rights, finalmente ci siamo – svela una ricchezza oceanica di tracce mnestiche che poche volte, nella mia lunga vita di lettore, ho “visto” così bene integrate in un IO di straordinaria lucidità, soprattutto per quel che riguarda scopi e bersagli da raggiungere.

La trama penso sia nota ai più. Il Male ha deciso di sferrare l’attacco finale. Il periodo è quello giusto. Siamo nel condotto finale di questo strambo appuntamento, che è una Final Destination soprattutto mediatica, che è il 2012. L’Apocalisse, la Fine del Tutto – non il tormentone New Age che ci parla sempre di Trasformazione – è nell’aria. La si annusa, la si vede negli incubi e nelle visioni, la si coglie negli sguardi incazzati o pieni di terrore della gente comune. Ogni giorno sembra provvisorio, se non l’ultimo. Non ci potrebbe essere un momento migliore per il Male. Per l’Enigma
Da dove proviene il Male? Da regioni invisibili, quantiche, cosmiche, infradimensionali. Ma, per quel che riguarda il Reame del Visibile, da dove è sempre venuto. Dal deserto, dal pieno sole del terzo o del quarto mondo, laddove la vendetta dei reietti assume su di sé un senso pesante. I Demoni più spaventosi sono quelli della Luce. Lo dice anche un ex esorcista, assai potente, che si chiama Milingo.

Così il Male parte all’assalto. Il disegno è totale e nel contempo centrifugo. Tutt’attorno è un tripudio di morti gratuite, attentati, sbudellamenti, mostruose alterazioni climatiche. La solita morte al lavoro della cronaca di ogni giorno. Ma il bersaglio  è tutt’altro che generico: la sede ufficiale del presunto Bene. Città del Vaticano, il Papa, il Simbolo per eccellenza, il Corpo della Chiesa. Laddove non puoi entrare senza l’ausilio di cardinali rinnegati e passati al Nemico. E intanto dilagano le possessioni, anzi le Incarnazioni. Non siamo mica più ai tempi di quella ragazzina di Georgetown che si chiamava Reagan.
E chi può avere competenza d’intervento, dato il terreno di scontro? Già… Esorcisti, non uno ma trentatré (bel numero da convegno episcopale). Anche se alla fine, come in Highlander, ne resterà solo uno. Che non è neppure un vero monaco, ma un Diacono.

Mi fermo qui? D’accordo. In realtà non intendo riassumere una storia che va letta e gustata a ogni riga. Anche perché quello che ho appena scritto non è affatto la storia per come la racconta Andrea, ma il suo succo de-frammentato. I famosi frammenti non (ancora) organizzati – solo un piccolissimo elenco perché sono molti, ma molti di più – attraverso i quali un ottimo romanzo  riesce a divenire, forse addirittura a dispetto del suo autore, la Storia, se non la summa, del genere di pertinenza e di riferimento.

Sino a ieri, in letteratura e credo anche al cinema, l’horror teologico era una Terra di Nessuno di cui non si percepivano bene i confini. Sostanza sfiorata da grandi autori, ma poi perduta per strada, perché la vaghezza nel gotico moderno può anche imporsi come valore.

Oggi, con Il Diacono, nasce – in Italia, e stupisciti una volta di più, sciocco lettore che non ne compri e non ne godi… – nasce, dicevo, l’horror teologico per come l’abbiamo sempre auspicato. Fatto della stessa materia del granito, la mota primitiva del suo protagonista, e intrecciato delle più assillanti e presenti paure dell’uomo contemporaneo. Mai il genere è andato così vicino alla radice del terrore di oggi. Mai un 11 settembre 2001 ci è stato spiegato meglio.

Oggi, almeno in letteratura, si volta pagina.


[1] Antonio Di Ciaccia, Massimo Recalcati, Jacques Lacan, Bruno Mondadori, Milano, 2000.

 

[2] Danilo Arona, Vien di notte l’uomo nero – Il cinema di Stephen King, Falsopiano, Alessandria, 1997.

About Danilo Arona
Danilo Arona (Alessandria, 28 maggio 1950) è uno scrittore, giornalista e saggista italiano. Per anni si è occupato di narrativa fantasy e mistery, tenendo conferenze sulla letteratura fantastica e collaborando alla scrittura di sceneggiature. Ha scritto saggi sul cinema dell'orrore e su alcuni esponenti di punta di questo tipo di cinema, quali Wes Craven e Stephen King. Ha pubblicato, tra gli altri, con la Mondadori, Marco Tropea, Gargoyle Books, Corbaccio, Dario Flaccovio e Mezzotints.

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